lunedì 25 maggio 2020

Tutto quello che di sbagliato tanti credono sul big bang.

Idee sbagliate su come è nato l'universo


Il big bang indubbiamente affascina, e come altri aspetti della fisica di frontiera scatena l'immaginazione di molti "appassionati". Questa immaginazione a volte si manifesta con la formulazione di teorie e affermazioni più o meno fantasiose e fai-da-te sull'evoluzione dell'universo, spesso basate su convinzioni sbagliate su cosa la scienza oggi intenda per "big bang".

Questo vuole essere un riassunto e una chiarificazione sulle principali idee sbagliate che molti hanno sull'origine dell'universo, alla luce di quello che al momento è il punto di vista sostanzialmente condiviso della comunità scientifica. In rete si trovano diversi articoli su questo argomento, come ad esempio questo. Una versione più tecnica  è invece ad esempio questa.

Il big bang non è stata un'esplosione. Il nome "big bang" è stato dato dal cosmologo Fred Hoyle nel 1949. Ironia della cosa, Fred Hoyle era sostenitore del modello dello Stato Stazionario, e quindi non credeva alla "grande esplosione". In ogni caso sull'istante zero, ammesso che sia mai esistito, non sappiamo nulla, e definirlo un'esplosione è quindi quantomeno improprio. Certamente molto improprio se la mente va all'idea che normalmente abbiamo di una esplosione, che avviene "nello" spazio, che quindi deve essere già presente di suo. Nel caso dell'universo lo spazio invece non esisteva, ma fu "creato" assieme a tutto il resto. Insomma: non possiamo immaginare il big bang come se lo guardassimo da fuori, semplicemente perché non esisteva nessun fuori, e quindi l'idea che sia stato un'esplosione è completamente sbagliata.


La teoria del big bang non è la spiegazione né la descrizione dell'istante zero. Che questo punto sia estremamente chiaro: non abbiamo idea di come realmente sia iniziato tutto quanto, ammesso che abbia un senso dire che ci sia stato un inizio. La teoria del big bang, come normalmente è intesa dagli scienziati, è semplicemente (si fa per dire) la descrizione e l'evoluzione dell'universo primordiale in base alle osservazioni sperimentali sull'universo attuale, e in base alle speculazioni che possiamo fare grazie alle nostre conoscenze di fisica. Dalle osservazioni attuali sappiamo che la distanza media fra le galassie aumenta nel tempo, e quindi, in un ipotetico filmato mandato al contrario, la materia in passato, in un'epoca che risale a quasi 14 miliardi di anni fa, doveva essere molto più densa e calda di oggi. Quindi possiamo applicare le nostre conoscenze di fisica a quelle condizioni, e se lo facciamo scopriamo che nell'universo di quasi 14 miliardi di anni fa non potevano esistere né stelle né galassie, ma soltanto i componenti fondamentali della materia stessa.  Le misure effettuate sull'universo come ci appare oggi mostrano senza ombra di dubbio (lo sottolineo, per dire che non è un punto di vista opinabile, ma un dato di fatto inoppugnabile, basato su osservazioni sperimentali e non su semplici teorie) che questa affermazione è vera, e cioè che l'universo di allora era molto più caldo e denso di quello attuale, con la materia disgregata nei suoi componenti fondamentali. Quelle condizioni così estreme, infatti, hanno lasciato tracce con caratteristiche ben specifiche, osservabili nell'universo odierno.

Non è detto che ci sia stato un istante zero. La fisica che conosciamo non funziona quando mandiamo "troppo" indietro il filmato, e questo rappresenta un muro invalicabile. Infatti se arriviamo a densità pari a 1096 kg/m3, che caratterizzerebbero la cosiddetta "era di Planck", le nostre conoscenze del mondo fisico non ci permettono di descrivere lo stato della materia a quelle condizioni così estreme. Un punto importante: il fatto che alle energie pari alla massa di Planck la fisica che conosciamo non funzioni più, non significa affatto che non ci sia stato nulla prima dell'era di Planck. I fisici parlano spesso di istante zero, ma in realtà non intendono realmente quello che queste parole sembrerebbero significare. In genere intendono un tempo che è comunque molto vicino temporalmente (estremamente vicino, per gli intervalli temporali che normalmente consideriamo) a questo stato estremo della materia, e per il quale tuttavia la fisica che conosciamo funzioni ancora. Se leggete di gente che dice con grande sicurezza che l'universo è nato da una fluttuazione quantistica, ignorateli. Sebbene vada di moda dirlo, in realtà non ne abbiamo la minima idea, né, per il momento, possiamo provarlo (o smentirlo) in alcun modo. E' un'interessante ipotesi di lavoro, perché il vuoto in fisica è estremamente più complesso del vuoto filosofico, e in quel "vuoto" molto poco vuoto potrebbero essere avvenuti fenomeni che la fisica ci dice possibili, e che potrebbero spiegare l'espansione dell'universo stesso. Queste teorie prendono il nome di "modelli inflazionari", che forse i fisici a volte tendono a prendere un po' troppo seriamente, ma che comunque costituiscono un modello interessante su cui lavorare. Tuttavia, se queste condizioni estreme caratterisitche dei modelli inflazionari fossero realmente esistite, esse dovrebbero aver lasciato tenui tracce nell'universo che osserviamo oggi, e queste tracce, se dovessimo osservarle in modo non ambiguo grazie a esperimenti futuri, potranno dirci qualcosa in più su cosa può essere realmente successo.

Non è solo una teoria. Si chiama teoria del big bang come la teoria della relatività, o la teoria dell'evoluzione, ma come la teoria della relatività e la teoria dell'evoluzione, la teoria del big bang si basa su solide basi sperimentali. In particolare il fatto che l'universo si stia espandendo e che un tempo la densità e lo stato della materia fossero diversi da quello attuale è un fatto osservativo inoppugnabile. Sembrerà assurdo, ma noi abbiamo una fotografia dell'universo di quando esso aveva solo 300 mila anni o giù di li. E' la radiazione cosmica di fondo: una "luce" che permeava l'universo quasi 14 miliardi di anni fa, e che lo permea tuttora. Una luce che oltre 13 miliardi di anni fa ha improvvisamente smesso di interagire con i nuclei di idrogeno e gli elettroni, quando questi sono finalmente riusciti a formare gli atomi di idrogeno, come conseguenza del raffreddamento dell'universo, causato dalla sua espansione. A questo punto la materia, sotto forma di atomi e non più di particelle cariche libere, è diventata improvvisamente trasparente a quella luce, e come la luce proveniente da una lampadina, che dopo aver interagito con un oggetto ci porta agli occhi le caratteristiche di quell'oggetto, così la radiazione cosmica di fondo oggi ci porta agli occhi (i nostri telescopi appositi) come era distribuita la materia all'epoca, un attimo prima che essa diventasse trasparente, con tutte le sue tenui fluttuazioni di densità e temperatura. La radiazione cosmica di fondo oggi, ci mostra come era distribuita la materia un attimo prima che i fotoni che permeavano l'universo smettessero di interagire con essa, circa 13 miliardi e mezzo di anni fa. Una delle più grande scoperte di tutti i tempi, e senza dubbio la più straordinaria fotografia (nel vero senso della parola) mai effettuata.

La "luce" che riempiva l'universo oltre 13 miliardi di anni fa, come viene osservata oggi. I diversi colori rappresentano le tenui differenze di temperatura e densità presenti all'epoca, estremamente amplificate dalla grafica. Questa è letteralmente la fotografia dell'universo di 13 miliardi e mezzo di anni fa.


Lo spostamento verso il rosso. Si dice che è un effetto Doppler, ma non è corretto. Somiglia all'effetto Doppler, ma a differenza di quest'ultimo, che è dovuto a oggetti che si muovono nello spazio, il red-shift è il risultato di una dilatazione dello spazio. E infatti la formula che descrive il red-shift cosmologico non è quella dell'effetto Doppler classico. Per galassie vicine è numericamente simile, ma differisce per galassie distanti.

Noi non ci espandiamo. Se allo specchio ci vediamo ingrassati, non possiamo imputarlo all'espansione dell'universo, ma semmai a un eccesso di amatriciane. Facciamocene una ragione. Gli atomi non si espandono, e nemmeno la terra o il sistema solare. L'espansione dell'universo si osserva a grandissima scala. Su piccola scala, dove piccola significa anche la distanza fra le galassie vicine, dominano le interazioni gravitazionali o elettromagnetiche (queste ultime nel caso dell'atomo), che rendono l'espansione dello spazio ininfluente.

Non c'è un luogo dove è avvenuto il big bang. Non c'è un ground zero nell'universo. Il big bang è avvenuto ovunque, in tutti i punti dello spazio. L'esempio di una membrana che si espande, e sulla quale sono stati disegnati dei puntini, aiuta a capirlo. Ogni puntino vedrà tutti gli altri puntini allontanarsi da lui, e si riterrà al centro dell'espansione. Per di più, esso vedrà i puntini più distanti allontanarsi con una velocità proporzionale alla distanza stessa, esattamente come la legge di Hubble. La legge di Hubble è infatti una conseguenza dell'uniformità e isotropia dell'espansione dello spazio.

L'espansione non avviene dentro uno spazio preesistente. L'espansione crea lo spazio. L'errore tipico è immaginare l'universo visto da fuori, ma non esiste nessun fuori. Tutto è, per definizione, dentro l'universo.

La recessione delle galassie non viola la teoria della relatività. Galassie molto distanti si allontanano con velocità superluminali. Questo è un fatto, un dato osservativo. Eppure non c'è alcuna violazione della teoria della relatività. Il motivo è che la velocità delle galassie è data dalla dilatazione dello spazio, e non da un moto delle galassie nello spazio. Immaginiamo la solita membrana di un pallone, e stiriamola in modo che ogni punto si allontani da tutti gli altri in modo proporzionale alla loro distanza relativa. Se la distanza tra i due punti è molto grande, è possibile che la velocità di allontanamento reciproca dei due punti superi la velocità della luce. Ma questo non ha a che fare con una violazione della teoria della relatività, perché non si tratta di un moto "attraverso lo spazio", ma una dilatazione dello spazio stesso.

Il raggio visibile dell'universo è molto maggiore di 14 miliardi di anni luce. Si potrebbe pensare che, essendo l'età stimata dell'universo di circa 14 miliardi di anni, allora 14 miliardi di anni luce debba essere anche la massima distanza visibile dalla terra. Però questa affermazione non tiene conto del fatto che nel frattempo lo spazio si è espanso, e tuttora si espande. Quindi nel tempo in cui un fotone ha viaggiato per 14 miliardi di anni dalla sorgente a noi, la distanza fra noi e la sorgente è aumentata a causa dell'espansione dell'universo. Il risultato è che quella sorgente che noi vediamo tramite il fotone che ci arriva sulla terra, è molto più distante di 14 miliardi di anni luce. Il raggio visibile dell'universo è infatti di circa 45 miliardi di anni luce. Questo non è il raggio visibile sperimentalmente, ma quello teoricamente visibile, imposto dall'espansione dello spazio. Che cosa ci sia al di là di questo ipotetico orizzone non abbiamo modo di vederlo. Questo orizzonte però recede nel tempo, e le future generazioni, fra miliardi di anni (ammesso che si siano trovate un nuovo pianeta con un nuovo sole su cui vivere), avranno a disposizione un orizzonte cosmico ancora più distante.

L'universo non ha un bordo. Il fatto che concettualmente potremmo osservare oggetti distanti al massimo circa 45 miliardi di anni luce non significa che non ci sia nulla oltre quel limite. La stessa affermazione è infatti vera per qualunque punto dell'universo. Niente ci dice che l'universo sia finito. Il "big bang", qualunque cosa esso sia stato, è una condizione di densità "infinita" (virgolettato, ovvero nel senso di estremamente elevata), ma non possiamo dire nulla su quanto estesa fosse questa condizione, pur ammesso che l'affermazione abbia un senso.

In tutto questo, c'è un aspetto della questione che a mio parere è meraviglioso: oggi possiamo trattare l'inizo dell'universo come un problema strettamente scientifico, su cui fare addirittura misure e esperimenti. Certamente qualcosa di assolutamente impensabile fino a un centinaio di anni fa. Non solo, ma oggi, grazie alla scienza, possiamo porci domande che in passato erano semplicemente inconcepibili. La scienza infatti, al contrario di altre forme di sedicente conoscenza, che tipicamente dispensano certezze immutabili (ma non verificabili), ha la caratteristica di accrescere il numero di domande senza risposta man mano che procede nella conoscenza del funzionamento della natura. Può sembrare un controsenso, ma il nostro livello di conoscenza di come funziona la natura si misura dal numero di nuovi problemi senza risposta. Problemi che un tempo non potevamo neanche immaginare, perché non sapevamo nulla. Insomma, la scienza non ci lascia mai disoccupati. E pensare che c'è chi la snobba!

lunedì 11 maggio 2020

L'ignoranza scientifica ai tempi del Coronavirus.

Ciò che chiediamo adesso alla scienza ne è lo specchio.


Si dice spesso che in Italia manchi la cultura scientifica. E' vero. Ma ci si dimentica sempre di spiegare cosa sia una società che ha cultura scientifica. La cultura scientifica non è sapere tanto di scienza. Non è sapere di galassie, particelle o virus, visto che siamo in tema. Certo, può aiutare, ma non è quella la cultura scientifica. 

La cultura scientifica è conoscere come funziona la scienza, il suo modo di procedere, il suo linguaggio, il suo metodo nell'affrontare i problemi, il suo modo di porsi le domande, la sua capacità di mettersi in discussione, e il modo in cui essa può o non può rispondere. Tutto questo non si insegna e non si impara con quei ridicoli programmi sterminati del liceo di oggi, in cui in fisica (la materia che conosco, e su cui posso dire la mia) si fa studiare di tutto, fino alle scoperte più recenti, anche senza avere le competenze matematiche necessarie, trasformando la scienza in un imparaticcio di nozioni, un immenso formulario in cui individuare la formuletta giusta per risolvere il problema. Non è saper risolvere le equazioni differenziali o gli integrali di volume in quinta liceo che darà maggiore conoscenza scientifica. E gli effetti di questa ignoranza scientifica, gli effetti del non aver capito che cos'è la cultura scientifica, si vedono drammaticamente nel modo in cui la nostra società si è posta nei confronti della scienza durante questi due mesi di emergenza Coronavirus. Tutto questo al netto delle voglie di protagonismo di alcuni medici a cui abbiamo assistito in questi ultimi mesi: anche i virologi sono esseri umani con annessi pregi e difetti, e anche fra loro si trovano esempi di tutto il campionario. Ma la scienza è un'impresa collettiva, e come tale va considerata, indipendentemente dal comportamento dei singoli scienziati.

Bisogna però innanzitutto dire che il Coronavirus ha avuto anche un effetto positivo nel nostro modo di rapportarci con la scienza, anche se dubito che sia stato effettivamente recepito e fatto proprio per il futuro: dopo aver deriso e snobbato in molte occasioni la scienza, raccontando la storiella che essa sia solo uno dei tanti modi, tutti equivalenti, per raggiungere la conoscenza, ecco che, di fronte a un virus che rischia di rimandarti al creatore, tutte le forme di conoscenza alternative, quelle che alla fine dovevano essere tutte equivalenti e ugualmente lecite, sono state messe in soffitta. All'improvviso tutti hanno gli occhi puntati solo sulla scienza, e non sulla filosofia tibetana o sull'ayurveda, e si aspettano che la scienza, e non l'iridologia o la meditazione quantica, risolvano il problema. All'improvviso si chiede agli scienziati, e solo a quelli, e non agli omeopati, ai fioristi (o fiorai) di Bach, ai medici alternativi, ai guaritori o ai vari taumaturghi da tv, di tirarci fuori dalla merda, per dire le cose come stanno.

Per non parlare poi degli astrologi, nessuno dei quali, alla fine del 2019, momento in cui effettuano le loro previsioni sull'anno successivo per poi invadere i programmi tv e le rubriche dei giornali, ha notato negli astri l'evento di gran lunga più colossale e impattante della storia dai tempi dell'invasione della Polonia da parte di Hitler. Che uno si chiede cosa stessero guardando, alla fine del 2019, per non notare una cosa del genere nell'ambito dell'incredibile potere predittivo messo a disposizione dagli astri! A parte la strepitosa cannata di Paolo Fox, che prevede per i primi mesi dell'anno un momento di crescita, in particolare molto vantaggioso per i viaggi (vedi il filmato), in questa puntuale previsione si legge testualmente: "Sarà un anno di look diversi e simpatici. Non abbiate timore di cambiare modo di porvi, a cominciare dai capelli. Ci saranno molteplici situazioni per mostrarsi in modo insolito, e con ottimi risultati". Chiaramente si riferisce al vezzo di portare la mascherina, e al fatto che con 3 mesi senza parrucchieri stiamo rimpiangendo la moda anni 70!  Comunque ho il sospetto che li ritroveremo tutti - gli astrologi - alla fine del 2020 per raccontarci senza ritegno cosa succederà nel 2021.

Comunque, a parte l'esserci momentaneamente dimenticati dei ciarlatani che puntualmente, in tempi normali, ci offrono le loro infallibili soluzioni per la salute, in questo frangente di emergenza è apparso chiaro quanto poco sappiamo di come funzioni la scienza.

La prima cosa che salta agli occhi è la pretesa di avere dagli scienziati risposte o ricette certe e immediate. Un esempio semplice e banale è il preteso uso "scientifico" delle mascherine, definite, a seconda dei giorni, inutili, addirittura controproducenti, oppure indispensabili pena contagio certo, anche se sei da solo in cima alla Marmolada. In tutto questo si è dimenticato il buon senso, che vuole la mascherina utile in molti casi, ma il cui uso da solo, soprattutto se non appropriato, non può ovviamente garantire nessuna certezza a fronte delle molteplici situazioni in cui possiamo venirci a trovare. Provate a ricapitolare mentalmente tutti i filmati, i meme, gli slogan e le affermazioni drastiche e talebane sulla assoluta necessità oppure sulla completa inutilità della mascherina che abbiamo visto in questi ultimi mesi. Da mettersi le mani nei capelli.

Certezza. E' proprio ciò che chiede alla scienza chi non ha capito nulla di scienza. Certezza nelle previsioni, nelle risposte, nelle procedure da adottare. Non si comprende che la scienza non può garantire nessuna certezza, perché l'incertezza è una sua caratteristica fondamentale. Non a caso nella prima lezione di laboratorio in fisica si studiano gli errori, cioè il fatto che qualunque affermazione quantitativa, qualunque misura scientifica è intrinsecamente affetta da un'incertezza, da un livello di credibilità, che dipende da tanti fattori, quali il metodo di misura, gli strumenti usati, il contesto, e i fattori esterni non sempre controllabili.



La certezza è anche ciò che manca in situazioni in cui la conseguenza di un'azione compiuta può verificarsi dopo molto tempo, e essere alterata e influenzata da una moltitudine di fattori concomitanti, come accade nella situazione che stiamo vivendo. Gli eventuali esiti positivi, ma anche quelli negativi, contribuiscono però entrambi alla conoscenza scientifica. I fallimenti fanno parte del processo scientifico, ma questo aspetto è difficilmente compreso. Il fatto che un esperimento con esito negativo, che non trovi o addirittura neghi l'effetto previsto, possa contribuire comunque anch'esso in modo importante alla conoscenza scientifica, non appartiene evidentemente alla cultura comune.

Fanno sorridere poi le richieste agli esperti di epidemiologia sul "giorno esatto in cui si avranno zero nuovi contagi". Addirittura a un certo punto è uscito un articolo sui giornali in cui per ogni regione si prevedeva il giorno in cui ci sarebbero stati zero contagi, con un anticipo di un paio di mesi. Della serie, siamo a metà aprile, e il 26 giugno le Marche avranno zero contagi. I giornali hanno anche pubblicato la tabella, regione per regione. Demenziale! Demenziale non aver capito, sebbene chiaramente specificato dagli esperti, che quella previsione era un'estrapolazione puramente matematica in base ai dati disponibili al momento, che chiaramente è affetta da un'incertezza che dipende dalla situazione contingente e dal modo in cui si effettua l'estrapolazione, e che non tiene ovviamente conto di altri fattori che potranno intervenire nel futuro a modificare quella previsione, comunque già intrinsecamente imprecisa. Demenziale non comprendere che quella estrapolazione matematica ci serve solo ad avere il polso della situazione, e non a conoscerne i dettagli esatti.

Fa sorridere anche la smaniosa aspettativa del "picco". Ecco, oggi è il picco! No, non è ancora il picco! Ma quando sarà il picco? "Non è ancora picco, purtroppo!" (con il commentatore mesto, che sembra gli sia morto il gatto). E magari poi c'è chi si arrabbia perché gli scienziati sono vaghi sul giorno in cui ci sarà questo mitico picco, incapaci di fare previsioni esatte. Anche qui, tutto è dovuto alla stupida convinzione che i dati reali seguano necessariamente una precisa funzione matematica, e non siano infuenzati da tanti altri fattori che rendono incerta una previsione che si vorrebbe certa. Questo articolo sull'arrivo del picco, aspettato come il Messia, sintetizza perfettamente quanto appena detto.

E poi le fluttuazioni statistiche. Ogni giorno al Tg c'è il giornalista di turno che riporta i dati dei contagi, dei decessi e dei guariti del giorno, che esordisce con "oggi migliorano i guariti ma purtroppo i decessi tornano a salire, sono 50 più di ieri". Se avessero fatto un po' di laboratorio al liceo conoscerebbero bene il concetto di errore statistico, e ci avrebbero risparmiato questo mantra giornaliero: in un trend in calo non ti aspetti per forza che ogni giorno i contagi siano sempre minori del giorno precedente.

La richiesta continua agli scienziati di avere risposte in breve tempo. Quante volte abbiamo sentito in questi giorni la frase "non ci capiscono niente, sono passati 3 mesi e ancora non si sa se... etc etc." Se sapessimo come funziona la scienza, sapremmo anche che la scienza ha bisogno di tempo. La scienza ha bisogno di verifiche continue, di controlli, di mettersi in dubbio e in discussione, di cercare controesempi, di cercare di falsificare continuamente i risultati ottenuti. La scienza ha bisogno di effettuare esperimenti, perché al contrario delle altre forme di conoscenza, cerca anche riscontri oggettivi alle sue ipotesi, e questi esperimenti richiedono tempo. E nel caso dell'epidemia di quest'anno, ci troviamo di fronte a una situazione che in era moderna non si era mai vista, e sulla quale nessuno aveva esperienza, nemmeno gli scienziati.

La diversità di opinione fra scienzati, viene spesso interpretata come "non ci capiscono niente neanche loro". Come se la scienza debba essere monolitica, univoca nei pareri. Invece la dialettica fra scienziati fa parte del motore della scienza. Le nuove idee, le proposte, e anche gli inevitabili errori e le strade sbagliate, contribuiscono in ugual modo alla conoscenza scientifica. Le diverse opinioni all'interno della comunità scientifica contribuiscono al progresso scientifico attraverso la capacità della scienza stessa di mettersi in discussione. Indignarsi e scandalizzarsi delle diversità di opinioni fra scienziati su un argomento nuovo e in evoluzione come la situazione che stiamo sperimentando, e chiedere invece certezze immediate unanimemente condivise,  è solo uno dei tanti modi in cui si manifesta l'ignoranza scientifica della nostra società.

Per tanti è infatti difficile comprendere che la scienza è un'impresa collettiva, oggi più che mai. Un'impresa in cui si sedimentano le conoscenze, che si accrescono tramite nuove scoperte ma anche attraverso i fallimenti e i vicoli ciechi. Invece la percezione che tanti hanno della scienza è quella da film di fantascienza di serie B, in cui lo scienziato è un genialoide che lavora da solo nel suo sottoscala e poi all'improvviso, l'unico al mondo, scopre "la formula"! La scoperta epocale, fatta all'iprovviso, mescolando a caso due sostanze! E' questa idea della scienza da film tipo Ritorno al Futuro che ha fatto credere a tanti, semplici cittadini ma - ciò che è grave - anche politici e "uomini di cultura", che uno come Vannoni (quello del caso Stamina), di mestiere docente di tecniche pubblicitarie a un'università telematica, potesse realmente aver trovato, l'unico al mondo, la cura per una malattia su cui lavorano da anni ancora senza successo migliaia di scienziati in tutto il mondo.

Su questa linea si colloca la richiesta sempre più pressante di sapere quando ci sarà un vaccino: è quasi pronto, no ancora no, lo sarà fra un anno, ci vorranno anni, funziona?, e se poi il virus muta, funziona? A parte che tutto ciò fa sorridere (ma anche incazzare), dopo la polemica demenziale e medievale sulla utilità/nocività delle vaccinazioni a cui abbiamo assistito in questi ultimi anni (quando tutto va bene, dalle malattie infettive ci si protegge con le tisane, quando va male "oh, ma quanto ci mettono per il vaccino?!?!?"). Ma anche in questo caso, di nuovo, la scienza, al contario dei pensatori della domenica, non ha risposte pret-a-porter, suadenti e rassicuranti. Sono i taumaturghi da prima serata tv, quelli acclamati dalle folle, ad averle! La scienza deve prima capire come agisce questo virus, se e come si evolve, e sperimentare per ottenere un vaccino. Cosa che richiede tempo. Ah, per inciso, se e quando ci sarà il vaccino, questo sarà stato realizzato dopo averlo testato sugli animali. Forse adesso appare chiaro anche a certi animalisti ottusi, quelli che liberano i topi dei labortori vanificando di colpo anni di ricerche, che l'alternativa sarebbe testare il vaccino direttamente sugli esseri umani. Se credono che questa sia la strada, che si facciano avanti: la ricerca li accoglierà a braccia aperte. Ma dubito che ci sarà la fila.

Insomma, nell'era degli esperti da tastiera abbiamo deriso la scienza, l'abbiamo impoverita di mezzi e uomini, l'abbiamo sostituita con surrogati inutili quando tutto sommato andava tutto bene, abbiamo gettato discredito sulla cultura scientifica, abbiamo organizzato dibattiti tv su argomenti di salute pubblica in cui si contrapponevano disk jokey a scienziati, abbiamo creduto che, con internet a spiegarci tutto, bastasse poco per diventare non dico esperti, ma comunque abbastanza preparati tanto da poter dire la nostra con cognizione di causa su clima, energia, vaccini, evoluzione della specie, cura del cancro e buchi neri. Abbiamo creduto a siti tipo noncelodiconomaetuttovero.it piuttosto che a Nature, salvo poi cambiare improvvisamente rotta davanti a una difficoltà di quelle serie, quelle in cui la nostra conoscenza acquisita sui social conta meno di zero, quella in cui taumaturghi e falsi medici non sanno che pesci prendere. Ed ecco che da zero a mille vogliamo adesso dalla scienza che ci risolva il problema, e che lo faccia subito e bene. Speriamo che, usciti da questa situazione, ci si ricordi finalmente della scienza e della sua importanza nella società anche quando non ci sono epidemie a minacciarci. Ma ho i miei dubbi.