venerdì 24 giugno 2016

La matematica del liceo e il compito di maturità

Riflessioni sul compito di matematica alla maturità.


Mia figlia ha appena fatto la prova di matematica alla maturità del liceo, e quindi ho provato anche io a fare quel compito, cercando di immedesimarmi nei pensieri dello studente medio. Non quello eccellente, ma quello medio. Quello normale, insomma. E mi sono reso conto dello scollamento che esiste tra quelli del Miur che preparano le prove di esame, e la scuola reale. E siccome il Miur dovrebbe essere la scuola, questo potrebbe rappresentare un problema.

Il compito di matematica della maturità scientifica consiste in 2 problemoni e 10 quesiti. Tuttavia non bisogna fare tutto, ma soltanto 1 problema e 5 quesiti. Di più non serve, perché non ti viene comunque valutato, e quindi fare 10 quesiti a metà è assolutamente inutile. Il testo di quest'anno è visionabile qui.

Tra i due problemoni in questi ultimi anni è diventato di moda il "problema contestualizzato". Si tratta in pratica di un problema matematico che dovrebbe rispecchiare una situazione reale, suppongo con l'intento di far capire agli studenti che la matematica è importante non solo a scuola ma anche nella vita, e che serve ad affrontare problemi concreti.

Primo errore. Anzi, "primi" errori, plurale. Il primo, proprio terra terra, è che durante la prova di esame di tutto si interessa lo studente, meno che dell'essere educato in qualcosa. In quel momento i suoi interessi primari sono rivolti unicamente al fare il compito meglio che si può. E quindi è quantomeno refrattario e impermeabile a questi intenti didattico-educativi. Non in quel momento, per lo meno. Ma questo, da parte del Miur, è solo un peccato veniale.

Il secondo errore è che la matematica è innanzitutto fine a se stessa! Si può fare matematica anche chiudendosi dentro un bunker e privandosi di qualunque contatto sensoriale col mondo, e anzi, il bello della matematica è proprio questo. E' il trionfo della logica e del ragionamento, e la sua bellezza non risiede nell'applicazione pratica.

Comunque, a parte queste distinzioni da rompiballe precisino (lo ammetto), bisogna dire che la contestualizzazione dovrebbe però anche avere un senso! Dovrebbe avere un qualche aggancio con situazioni reali. Non deve essere una forzatura in modo da cacciarci dentro l'analisi matematica a tutti costi inventandosi situazioni assurde, che di reale non hanno niente! Allora tanto varrebbe lasciar stare la contestualizzazione e dare un bel problema di matematica e basta.

Nell'ultimo compito, ad esempio, il primo problemone parlava di un amministratore di condominio che deve progettare un serbatoio per il gasolio, e deve decidere la forma del tetto in base a tre parametrizzazioni in termini di funzioni matematiche, ognuna contenete un tot di valori assoluti, potenze, parametri incogniti etc.

A parte che uno si immagina subito cosa deve essere stata la riunione di condominio dove dovevano mettere ai voti la cosa. Già me lo vedo l'amministratore che dice ai condomini in ciabatte e tuta in acetato: "Allora, alzi la mano chi è a favore della prima funzione, quella con 1 + modulo di x tutto elevato alla 1 su k. Adesso voti invece chi preferisce l'opzione b, quella con la polinomiale di terzo grado".  Nessuno per l'opzione c, quella con il coseno di pi greco mezzi per x alla k? E poi, signori, vi ricordo che la sommità deve avere un punto angoloso di non meno di dieci gradi!".

Ma a parte questo, che razza di problema reale è? Per chiederti quale funzione approssima meglio un certo disegno hanno imbastito una pagina e mezzo di chiacchiere inutili sconfinanti nel demenziale, su una questione che mai e poi mai accadrà nella realtà. Non era meglio non contestualizzare, che inventarsi un problema del genere?

Ad esempio, sempre in tema di contestualizzazione, un po' di tempo fa avevano dato un compito (era una simulazione di prova d'esame) in cui un artigiano voleva costruire una scatola per scarpe di tipo universale, buona per tutti i numeri, e per questo aveva pensato che la scatola doveva essere (cito dal testo):

"a base rettangolare di dimensioni 20 cm per 30 cm e che l’altezza, procedendo in senso longitudinale da 0 a 30 cm, segua l'andamento così descritto: ad un estremo, corrispondente alla punta della scarpa, l’altezza è 4 cm, a 10 cm da questo estremo la sagoma flette e l’altezza raggiunge 8 cm, a 20 cm dall’estremo l’altezza raggiunge 12 cm, mentre all’altro estremo l’altezza è zero". 

E poi era in dubbio se usare un'esponenziale di polinomi, una somma di seni e coseni al quadrato, o piuttosto una semplice cubica. Il dilemma tipico dei costruttori di scatole di scarpe, insomma. A parte che non ci sarebbero comunque entrate le scarpe col tacco 12 e nemmeno i miei stivaletti pitonati, uno che legge, se ha un attimo di lucidità in quel momento di ansia, gli viene da dire: "Ma andatevene affanculo, voi, l'artigiano e tutta la matematica! Ma mi state prendendo in giro? Mi volete far credere che questo è il motivo per cui si studia la matematica al liceo? Per scegliere se progettare scatole di scarpe con la forma di una polinomiale cubica o una somma di esponenziali? Ma siete scemi?"

Quindi, mi permetto un consiglio personale agli esperti del Miur: se proprio volete contestualizzare i problemi di analisi matematica, date problemi che abbiano un senso, oppure - molto meglio - lasciate perdere la contestualizzazone e date problemi di analisi matematica e basta, evitando questa buffonata di farli apparire casi reali, che tanto non ci crede nessuno, e anzi fate solo incazzare, col risultato che uno vorrebbe conoscere quell'amministratore di condominio o quell'artigiano per dirgli in faccia che si trovino una donna, uno svago, un torneo di burraco, qualcosa insomma, ma che la smettano di scassare la minchia agli studenti.

A parte la contestualizzazione, però, i problemi e i quesiti proposti, in genere sono belli. Sono come dovrebbero essere, secondo me, i problemi e i quesiti di matematica. Sono problemi e quesiti in cui il ragionamento, l'arguzia e l'intuito contano molto di più della macchineria. Sono problemi dove saper intuire la strada giusta, quella più furba, ti trasforma spesso un esercizio apparentemente difficilissimo in una sciocchezza.

Il problema però sta che quello che si fa a scuola non è finalizzato ad affinare le capacità di ragionamento e arguzia, ma piuttosto la macchineria. Le verifiche date durante l'anno sono tipicamente una lotta contro il tempo: 20 limiti di funzione da calcolare in un'ora, poco più di qualche minuto per esercizio. Calcoli di derivate di funzioni che non entrano in due righe di foglio protocollo, tanto sono lunghe. Insomma, compiti dove devi far partire a manetta la macchineria e farla andare come un treno, senza errori, e dove soprattutto non puoi permetterti di fermarti a riflettere, perché perderesti tempo prezioso. Ultimamente questo genere di verifiche, da quello che sento in giro, va di gran moda. Non ci sarebbe niente di male se poi non ti dessero un compito di maturità dove il tempo a disposizione è veramente l'ultimo dei tuoi problemi (ci sono 6 ore di tempo), e dove il ragionamento gioca invece un ruolo fondamentale.

Ad esempio il secondo problemone della maturità di quest'anno non richiedeva praticamente calcoli, ma solo molto ragionamento, basato su tutto quello che si è appreso sulle derivate, gli integrali, e la matematica del liceo in generale. Il primo dei 10 quesiti, poi, basato sull'integrale della funzione Gaussiana, si risolveva in un minuto se uno sapeva cos'è la funzione Gaussiana e che forma ha il suo grafico (e non è argomento comunemente svolto nei programmi), e se si applicavano ragionamenti che niente hanno a che fare con la macchineria e l'applicazione delle regole. Altrimenti diventava un problema molto difficile, perché in genere di fronte a un integrale ti insegnano a risolverlo a testa bassa applicando le regole, e non a fermarti a riflettere su che forma ha la funzione da integrare, perché magari con quell'informazione il problema diventa banale. E guarda caso quell'esercizio lo hanno fatto in pochissimi.


Si potrebbe dire che è colpa degli insegnanti, dato che ormai lo sanno che al Miur da un po' di anni a questa parte propongono problemi di questo tipo. Certamente in parte lo è, perché a mio parere si potrebbe trovare un ragionevole compromesso tra l'apprendere a essere veloci nell'applicazione di meccanismi standard, e l'imparare a risolvere i problemi con tecniche non standardizzate, che richiedono innanzitutto ragionamento e una veduta di insieme della matematica che si acquisisce soltanto con l'abitudine a questo tipo di approccio.

Però il punto è che gli insegnanti si devono comunque confrontare con il dover completare un programma ministeriale che è diventato sterminato. In quinta liceo ai miei tempi ci si fermava agli integrali. Adesso in aggiunta si fanno, o si dovrebbero fare: il calcolo combinatorio e delle probabilità, le equazioni differenziali, i solidi di rotazione con relativi integrali e la geometria analitica nello spazio. Tutte cose importanti, non discuto, ma mi chiedo se veramente al liceo bisogna fare tutto questo, con l'evidente controindicazione di penalizzare la qualità dell'apprendimento, relegando il tempo per riflettere in secondo piano  in favore della semplice applicazione di regolette standardizzate. C'è poco da fare, se nelle stesse ore devi fare il doppio della roba, il tempo che ci puoi dedicare si dimezza. E anche quello che puoi realmente assimilare diminuisce. E' un esempio di contestualizzazione della matematica, no?

E lo stesso accade nel programma di fisica. Una volta a fisica al liceo non si facevano esercizi. Per lo meno era raro. Adesso invece si fanno soprattutto esercizi. Giusto, per carità, in fisica saper risolvere gli esercizi è importante.  Ma nel frattempo il programma si è centuplicato. Adesso in quinta si fa elettromagnetismo, teoria della relatività, fisica atomica, fisica moderna, etc etc. O per lo meno si dovrebbe fare. Tutto per forza di cose in modo superficiale, perché l'insegnante deve andare veloce, se vuole finire il programma. Di nuovo, essendo le ore sempre le stesse e contestualizando...

E il risultato è che fisica diventa, per gli studenti, per lo meno per la maggior parte degli studenti, una sterminata accozzaglia di formule da cui pescare quelle giuste per fare gli esercizi. E invece in fisica, se non comunichi la magia, il fascino di quelle formule, se non fai vedere che dietro quelle espressioni matematiche c'è il mondo vero (lì si che bisogna contestualizzare!), se non fai vedere che dietro certe cose all'apparenza aride o scontate ci sono problemi concettuali incredibili e magari irrisolti, il tutto rischia di diventare di una noia mortale.

Ma soprattutto dietro questa corsa a terminare programmi sterminati senza un attimo di tregua, penalizzando per forza di cose il ragionamento e la riflessione, si cela secondo me un problema di importanza molto più fondamentale e di grande impatto sulla società. E cioè che quelli bravi, quelli che hanno una marcia in più, non avranno comunque problemi, perché sono bravi di loro. Quelli ci sono sempre e emergeranno sempre, anche senza chiedere loro espressamente di risolvere 20 esercizi in 30 minuti, e non avranno comunque problemi nemmeno col compito di maturità, dove conta il ragionamento e la logica. Ma tutti gli altri, cioè quelli che nel bene e nel male costituiranno il cittadino medio, e quindi la società, rischiano di essere tirati su come polli in batteria, privati della bellezza di qualcosa che difficilmente avranno modo di imparare e apprezzare altrove, e cioè dell'importanza del riflettere di fronte alle cose.

domenica 19 giugno 2016

La Sindone: a prova di scienza solo quando il risultato torna

Quando il metodo scientifico viene messo in soffitta


Mettersi a parlare della Sindone e della sua eventuale autenticità è terreno minato, come accade in Italia per tutti quegli argomenti che in qualche modo possono richiamare la religione, vedi ad esempio la teoria dell'evoluzione. In tutti questi casi avviene che gente normalmente logica e rigorosa mette tutta la sua razionalità nell'armadio e, pur senza ammetterlo, fa fatica a discutere su questi argomenti anteponendo il metodo scientifico al cuore.

Indubbiamente la Sindone è un oggetto molto interessante, e per certi versi poco chiaro. Lo è sicuramente per ciò che concerne la formazione dell'immagine, sebbene recentemente il chimico Luigi Garlaschelli sia stato in grado di replicarla usando soltanto tecniche che erano disponibili all'epoca (fonte), comprese le sue caratteristiche di immagine negativa e tridimensionale.

Però io qui non voglio assolutamente discutere se la Sindone sia veramente il telo che ha avvolto Cristo, o sia invece un falso, anche se una mia idea ben precisa ovviamente ce l'ho. In quello che segue mi interessa invece discutere del metodo. Il metodo usato per studiare la Sindone, che dovrebbe essere quello scientifico, e che da tanti "autenticisti" viene cavalcato e sbandierato negli studi sulla Sindone per motivarne l'autenticità, ma che viene all'improvviso messo da parte, maltrattato e strapazzato quando nelle misure c'è qualcosa che non torna, qualcosa che va contro i propri pregiudizi, qualcosa che mina la possibilità che la Sindone sia autentica. Su questo aspetto di metodo, facendo di mestiere lo "scienziato" (termine che gli scienziati non usano mai per chiamarsi), anche se non sono un sindonologo posso dire infatti la mia.

Prendo spunto quindi da questa intervista a Baima Bollone, uno dei principali sostenitori dell'utenticità della Sindone, medico patologo e quindi uomo di scienza, e che - come tale - dovrebbe usare quest'ultima per indagare la Sindone. L'intervista mi era stata gentilmente segnalata in un commento ad un altro articolo di questo mio blog, ed era troppo succosa per essere ignorata, perché riassume come, in fatto di Sindone, il metodo scientifico sia usato solo quando fa comodo.


Il metodo scientifico è innanzitutto una serie di comportamenti. Non ci sono regole codificate, ma è un misto di buon senso, logica e tecniche che servono in ultima analisi ad effettuare misure corrette dal punto di vista metodologico e contemporaneamente ad individuare ipotesi illogiche, evitare cattive interpretazioni dei dati e quindi non prendere, per quanto possibile, colossali cantonate.

L'indagine e le relative conclusioni sulla Sindone da parte di certi scienziati ci ricorda che gli scienziati sono anche esseri umani, e quindi pure per loro il cuore e il sentimento possono mandare il raziocinio a farsi friggere. Vediamo.

Intanto l'esordio dell'intervista: "l'autenticità della Sindone è scontata", afferma Bollone, che quindi si sbilancia senza mezzi termini, affermando anche che la Sindone è "autentica come epoca", passando come uno schiacciasassi sul fatto che esiste una datazione al Carbonio 14 che colloca la Sindone nel 14esimo secolo, con alta probabilità fra il 1260 e il 1390.

Sull'esame del C14 tornerò più avanti. Però qui ci sono due errori clamorosi e ingenui che un ricercatore non dovrebbe mai commettere. Bollone, che dovrebbe essere uomo di scienza, questi errori li fa entrambi.

Il primo è fare una ricerca per dimostrare una tesi che si crede già essere vera. Una regola base della scienza, quando si vuole testare un'ipotesi, è assumere che quell'ipotesi sia sbagliata, ovvero che sia vera l'ipotesi nulla. Per capirci, se si cerca l'esistenza di una particella, si assume che quella particella non esista; se si cercano gli effetti nocivi del cellulare, si assume che non ci siano effetti nocivi, etc. E quindi si va per prima cosa a guardare se i dati sono spiegabili assumendo l'ipotesi nulla. Solo se i dati sono assolutamente incompatibili con l'ipotesi nulla, si ha il permesso di cercare ipotesi alternative. Se il segnale del bosone di Higgs fosse stato spiegabile con quanto previsto dal semplice rumore di fondo (l'ipotesi nulla), non saremmo stati autorizzati a fare annunci sulla sua scoperta. Se un eventuale incremento di una certa malattia fosse spiegabile senza invocare l'uso del cellulare, niente ci autorizzerebbe a dare la colpa al cellulare. Insomma, se voglio cercare qualcosa che non so se è vera, parto sempre dall'ipotesi che non sia vera, e se trovo qualcosa che mi potrebbe indicare il contrario, cerco innanzitutto di smentirla in tutti i modi possibili! E' un modo di procedere assolutamente fondamentale nella ricerca scientifica. E quindi se certe osservazioni sulla Sindone sono spiegabili assumento che la Sindone sia falsa, nulla ci autorizza ad affermare il contrario.

Il secondo errore grossolano si riallaccia direttamente al primo, ed è quello di ignorare i risultati scientifici che si oppongono alla convalida di questa tesi preconcetta. In gergo si chiama "confirmation bias". Cioè tenere per buoni quei risultati che vanno nella direzione di provare quello che crediamo vero, e ignorare i risultati che invece lo smentiscono. E, nel caso specifico della Sindone, ignorare il risultato del C14. Invece, relativamente a questo test, o si dimostra (ma lo si fa veramente, non con ipotesi a caso, come vedremo più avanti) che la datazione del C14 è sbagliata, oppure non si può semplicemente ignorarne il risultato perché va contro le nostre convinzioni sull'autenticità della Sindone. Invece Bollone, e tutti gli autenticisti, il C14 lo menzionano solo di straforo, del tipo: "...e poi ci sarebbe pure il C14, ma quello vabe', è sbagliato di sicuro, figuriamoci se la Sindone, la cui autenticità è scontata, può essere del 1300!". E' il metodo scientifico buttato nel cesso e la catena tirata. E prima che il gallo canti verrà tirata molto più di tre volte...

Ad esempio un'affermazione di Bollone che dovrebbe indurre qualunque scienziato a riflettere è che "la Sindone ha una perfetta corrispondenza con i Vangeli". Affermazione che lascia sottintendere che, mostrando la Sindone l'immagine di un uomo crocifisso come dicono i Vangeli, questo rafforza la probabilità che sia vera. L'errore grossolano è ignorare che, assumendo l'ipotesi nulla, e cioè che la Sindone sia un falso, si può dire con altrettanta plausibilità che essa ricalca perfettamente quanto descritto dai Vangeli. Insomma, se uno vuol fare un falso e farlo passare per l'impronta del corpo di Cristo, gli ci mette le stimmate, i segni delle frustate, il sangue sulla testa dovuto alla corona di spine, sul costato etc. Se vuole fare un falso credibile prende i Vangeli e li copia al millimetro! Non dico che questo indichi che la Sindone sia falsa, ma piuttosto che in nessun modo questa constatazione possa portare indizi verso l'autenticità della Sindone, perché qualunque Sindone falsa avrebbe comunque ricalcato i Vangeli! E se si parte (come qualunque scienziato serio dovrebbe fare) dall'ipotesi che essa sia un falso, questa osservazione è perfettamente consistente con quello che ci si aspetta da un falso. Il fatto che, eventualmente, sarebbe anche consistente con l'ipotesi che la Sindone fosse vera, non significa nulla in questo caso, così come avviene per qualunque "rumore di fondo", che per definizione è indistinguibile dal fenomeno cercato. La consistenza dell'immagine della Sindone con in Vangeli è, in pratica, assolutamente ininfluente per quello che riguarda la sua autenticità.

E il discorso è analogo per la questione del sangue che sarebbe presente sulla Sindone. Infatti, anche ammesso che ci sia sangue, cosa che peraltro è tutt'altro che scontata, volendo realizzare un falso molto probabilmente l'autore ci avrebbe messo del sangue. E quindi, di nuovo, la presenza di tracce ematiche sulla Sindone non porta nulla a favore della sua autenticità.

domenica 12 giugno 2016

Capire i buchi neri con l'aritmetica di base

  
I buchi neri sono tra gli oggetti più astrusi dell'universo. Sostanzialmente si tratta di corpi celesti il cui campo gravitazionale è così intenso da far sì che niente vi possa uscire. Nemmeno la luce, da cui il termine "nero". Certo, alcuni diranno che Hawking ha dimostrato che in realtà, applicando la meccanica quantistica a un buco nero, questo può, anzi deve, alla lunga, "evaporare", emettendo particelle, e quindi contraddicendo il fatto che nulla può uscirne. Però, per i buchi neri di tipo astrofisico, di quelli che hanno origine al centro delle galassie o in seguito al collasso gravitazionale di una stella, e che sono gli unici che finora conosciamo, questa evaporazione dovrebbe accadere veramente molto alla lunga. Tanto per dare un numero, un buco nero con la massa uguale a quella del sole camperebbe qualcosa come 10 alla 66 anni. Quindi talmente alla lunga che, di fatto, tutti i buchi neri noti agli astronomi sono al momento sostanzialmente dei ciucciamateria, che si ingrassano risucchiando tutto quello che sta loro attorno grazie ad un campo gravitazionale che nelle loro immediate vicinanze diventa veramente prodigioso.

Per descrivere correttamente i buchi neri ci vuole la teoria della relatività generale, che ha una matematica non proprio alla portata, diciamo. Però alcune proprietà dei buchi neri sono descrivibili anche con la matematica di base, quella delle superiori, tanto per capirci. E la cosa interessante è che, usando questa matematica comprensibile, si impara comunque molto sui buchi neri, fino ad alcune loro proprietà che possono risultare sorprendenti, e per certi aspetti in controtendenza con quello che l'immaginario collettivo ci fornice. Ammesso che ci sia un immaginario collettivo sui buchi neri.

Cominciamo con un esempio: lanciamo un sasso in aria. Non c'è bisogno di farlo realmente, ma immaginiamo di farlo. Lo lanciamo, lui va su per un po', rallenta, e poi ricasca giù (evitiamo di farcelo cadere in testa, possibilmente).  Adesso proviamo a lanciarlo con più forza, dandogli una velocità iniziale maggiore: farà la stessa cosa di prima arrivando però un po' più in alto, ma poi ad un certo punto invertirà la direzione del moto e ricadrà inesorabilmente a terra. Se gli diamo ancora maggiore velocità andrà ancora più in alto però poi... insomma avete capito. La forza di gravità ad un certo punto gli consuma tutta l'energia cinetica, e quindi lo obbliga a fermarsi. A quel punto, il sasso, come Willy Coyote, non può far altro che precipitare.


Se però fossimo capaci di dare al sasso una velocità sufficientemente elevata, lo vedremmo salire e salire, e non tornare mai più giù. In pratica lo vedremmo allontanarsi per sempre dalla terra. Quella velocità iniziale che permette di ottenere questo strepitoso risultato si chiama "velocità di fuga", ed è la stessa che permette ad un razzo di essere mandato in orbita, o andare sulla Luna, su Giove etc. Per allontanarsi indefinitamente dalla terra, il sasso deve avere inizialmente almeno quella velocità. Se poi ha una velocità addirittura maggiore, tanto meglio.

Questa velocità, contrariamente a quello che ci si potrebbe immaginare, non dipende dalla massa del sasso o del razzo, o da quello che vogliamo lanciare nello spazio. Dipende soltanto dalla massa della terra e dal raggio della terra, e vale, sulla terra, 11,2 Km/s, ovvero circa 40000 Km/h. Se riuscissimo a sparare il nostro sasso in alto con una velocità di almeno 40000 Km/h, il nostro sasso non tornerebbe più giù. Un nuovo gioco da proporre ai luna park: "mostra la tua forza e supera la velocità di fuga: 3 lanci 5 euro!". Soppianterebbe il gioco del pugno, quello dove orde di lobotomizzati si mettono in fila sparando cazzotti stratosferici perché credono che le donne si facciano impressionare da simili prodezze. 

La velocità di fuga dipende quindi dalla massa e dal raggio del pianeta su cui ci si trova (tipicamente ci capita di essere sulla terra). Quindi, metti ci dovesse capitare di essere sulla Luna, la velocità di fuga sarebbe di soli 8000 Km/h, mentre sul Sole sarebbe di 2 milioni di Km/h. Ma sul sole magari avremmo altri problemi, tipo quello di non scottarci i piedi. Comunque, pianeta che vai, velocità di fuga che trovi.

La velocità di fuga si calcola tutto sommato abbastanza semplicemente (è un tipico esercizio da liceo). Il calcolo si basa sulla conservazione dell'energia, cinetica più potenziale, che in assenza di attrito resta sempre quella in qualunque momento del volo del nostro sasso. Se all'inizio vale tot, quel tot rimane anche a un miliardo di anni luce dalla terra, se non interviene qualche altro pianeta a risucchiarlo. Quindi quando lanciamo dalla superficie della terra un oggetto verso l'alto con velocità iniziale v, l'energia totale di questo oggetto è la somma della sua energia cinetica iniziale più la sua energia potenziale iniziale, che è quella di un oggetto posto a distanza R(0) dal centro della terra.  La massa della terra la chiamiamo M (vedi formula sotto).

Affinché questo oggetto possa allontanarsi indefinitamente dalla terra (o dal corpo celeste su cui ci dovessimo trovare), la sua velocità iniziale deve essere tale che a distanza grandissima (infinita) l'oggetto ci arrivi almeno con velocità zero. Ovvero mentre si allontana e si allontana la sua velocità decresce e decresce, ma non si azzera mai (altrimenti tornerebbe indietro) se non a distanza infinita. E quindi a distanza infinita la somma delle energie cinetiche e potenziali varrà zero (zero velocità quindi zero energia cinetica, e distanza infinita quindi zero energia potenziale). Pertanto, conservandosi la somma delle energie cinetiche e potenziale in qualunque momento del volo del nostro sasso, la somma delle energie cinetica e potenziale iniziale deve essere anche essa pari a zero. Quello è il minimo sindacale perché un corpo arrivi all'infinito (ovvero si allontani indefinitamente dalla terra), e la velocità che entra nell'espressione dell'energia cinetica iniziale (il pezzo a sinistra della formula) ci dà in questo caso la velocità di fuga. Il termine G è la costante di gravitazione universale: un numero, una costante che è sempre di mezzo quando si parla di forza di gravità.

Per calcolare la velocità di fuga sulla superficie di un pianeta di raggio R(0) e massa M, la somma dell'energia cinetica e potenziale iniziali deve essere almeno zero (se maggiore tanto meglio).

Quindi se v(0) lo chiamiamo v(f), cioè la velocità di fuga, quest'ultima si ricava dalla formula sopra, e vale:

La velocità di fuga sulla superficie di un corpo celeste di massa M e raggio R(0).

Si può notare che la velocità di fuga non dipende dalla massa dell'oggetto che lanciamo, che sia un sassolino o una stazione spaziale. Questo perché sia l'energia cinetica che quella potenziale della formula sopra dipendono da m, la massa dell'oggetto che lanciamo in aria, e che quindi possiamo tranquillamente semplificare.  Prevengo i precisini prima che insorgano puntualizzando che in questo calcolo è stata completamente trascurata la resistenza dell'aria, il cui effetto è invece fondamentale se si vuole lanciare un razzo (o un sasso) nello spazio. Ma la definizione di velocità di fuga importante dal punto di vista fisico si disinteressa dell'attrito, e per un dato corpo celeste rimane quella data sopra.
Si vede dalla formula che la velocità di fuga aumenta con l'aumentare della massa M del pianeta e decresce con l'aumentare del raggio R(0) del pianeta stesso. E' chiaro il perché: se il pianeta ha molta massa, il suo campo gravitazionale è più intenso, e quindi ci vuole una velocità grande per far allontanare il sasso all'infinito. Non solo, se il pianeta, a parità di massa, è piccolo, siccome la forza di gravità cresce con il quadrato della distanza, e la massa può essere immaginata tutta concentrata nel centro del pianeta, più è piccolo R(0) più è forte la forza di gravità, e quindi maggiore è la velocità iniziale che dobbiamo imprimere al corpo.

Adesso chiediamoci: quale dovrebbe essere il raggio R(0) di un corpo celeste di massa fissata M, affinché la velocità di fuga sulla sua superficie sia pari alla velocità della luce? Dalla formula sopra basterebbe mettere al posto di v(f) la velocità della luce c, e ci ricaviamo R(0).

Qui bisogna premettere una cosa importante. Questo calcolo, fatto in questo modo, è sbagliato. Nel senso che questi calcoli, validi per la meccanica Newtoniana, non funzionano nella teoria della relatività. E questo è un tipico caso in cui bisogna applicare la teoria della relatività generale e non la fisica di Newton. I buchi neri non sono certo oggetti da fisica classica! Però... Però il caso vuole che, anche usando la relatività generale e facendo tutti i conti giusti (molto più complessi che quelli che abbiamo fatto noi), per questo calcolo specifico il risultato viene identico! E cioè:


Il raggio di Schwarzschild, R(s), esprime le "dimensioni" di un buco nero.

dove R(s) si chiama "Raggio di Schwarzschild", che corrisponde al raggio che deve avere un corpo celeste di massa M affinché la velocità di fuga sia pari alla velocità della luce. Ma siccome un buco nero lo abbiamo appena definito come un oggetto dal quale neanche la luce riesce a scappare via, il raggio di Schwarzschild  è proprio il raggio di un buco nero.

Qui a questo punto bisogna capirci un attimo per definire cos'è il raggio di un buco nero, prima che i nerd si scatenino, dato che,  al contrario di un qualunque altro corpo celeste, non sappiamo niente di cosa ci sia dentro un buco nero, né tanto meno come sia disposta la materia, ammesso che sia disposta in qualche modo.  Nel caso di un buco nero, quindi, la superficie è una superficie ideale, matematica, che prende il nome di "orizzonte degli eventi", ovvero la superficie sulla quale la velocità di fuga coincide con la velocità della luce. Essa rappresenta la superficie che delimita il mondo accessibile alle osservazioni (quello che sta fuori) da quello che è completamente inaccessibile (quello che c'è dentro). Fuori da quella superficie i segnali luminosi possono arrivare fino a noi, dentro quella superficie non più. E' la superficie che rende il buco "nero".

Come si vede dalla formula per il raggio di Schwarzschild, il suo valore dipende solo dalla massa del corpo celeste (a parte G che è solo un numero). L'idea per far diventare un oggetto di massa M qualunque un buco nero, è quello di comprimerlo a sufficienza fino a farlo diventare piccolo quanto il raggio di Schwarzschild. E quindi, in linea di principio, qualunque oggetto, di qualunque massa, potrebbe diventare un buco nero.  Certo, non è detto che ci siano meccanismi fisici in grado di comprimerlo a sufficienza fino a quel punto, ma questo è un altro discorso.

E quindi possiamo toglierci la curiosità su quanto dovrebbe essere piccola la terra, quanto dovremmo comprimerla, per farla diventare un buco nero. Basta mettere  il valore numerico della massa della terra nella formula per R(s), cioè 6 per 10 alla 24 Kg, e otteniamo qualcosa come 1 cm. Se comprimessimo tutta la massa della terra dentro un oggetto grande come una biglia, otterremmo un buco nero con la massa uguale a quella della terra.

Lo stesso giochetto fatto con il sole, ci obbligherebbe a comprimerlo dentro una sfera di raggio pari a circa 3 Km. Se il sole fosse una palla di 3 Km di raggio, invece che di 700000 Km, sarebbe un buco nero.

Cosa sperimenterebbe, dal punto di vista gravitazionale, un eventuale pianeta distante dal sole, se al posto del sole ci mettessimo di nascosto un buco nero di pari massa? Sostanzialmente niente! A grande distanza, infatti, il campo gravitazionale del sole è descritto comunque come se la sua massa fosse tutta concentrata in un punto, e quindi i vari pianeti continuerebbero a ruotarci attorno sostanzialmente come prima. Non è che, perché il sole è diventato un buco nero, allora il suo campo gravitazionale sperimentato da Plutone diventa più grande! Non ve lo aspettavate, dite la verità.
 
E' soltanto avvicinandosi che vengono fuori i problemi. Infatti la velocità con cui un pianeta ruota attorno al sole dipende, per la legge di Keplero, dall'inverso della radice quadrata della distanza del pianeta dal sole. Per la terra è 30 Km/s, per Marte è 24 Km/s e via via a diminuire man mano che i pianeti sono più distanti. Mercurio, invece, che è il più vicino al sole, ci ruota attorno con una velocità di quasi 50 Km/s. Adesso immaginate che il sole sia un buco nero, e supponente di potervi avvicinare sempre di più ad esso. La velocità di rivoluzione del pianeta attorno al "sole-buco nero" aumenterà sempre di più, essendo adesso la sorgente del campo gravitazionale, cioè il buco nero, molto più piccolo. A 5 Km dal suo centro, e solo 2 dall'orizzonte degli eventi, la velocità di rotazione sarà di 10000 Km/s. Una trottola impazzita (vi ricordate i due buchi neri della scoperta delle onde gravitazionali?). A queste distanze la relatività generale prevede comportamenti diversi dalla gravitazione di Newton, come ad esempio che sia impossibile un'orbita stabile, e il corpo finirà inesorabilmente per spiraleggiare dentro il buco nero.

E se la terra fosse un buco nero? Che - abbiamo visto - sarebbe grande come una ciliegia? Cosa sperimenterebbe un (incauto) astronauta in caduta libera verso di essa? A grandi distanze niente di speciale. Cadrebbe in caduta libera come succede a tutti gli astronauti nella stazione spaziale. La sua velocità aumenterebbe in modo preoccupante se vista da un osservatore esterno, fino a diventare prossima a quella della luce, ma di questo lui non se ne accorgerebbe proprio. Per lui che cade non cambierebbe niente da quello che percepisce un normale astronauta quando fa le capriole davanti alla telecamera. E' soltanto avvicinandosi alla "terra-buco nero" che inizierebbero i problemi. Infatti, a distanze prossime alla superficie di un buco nero, per un buco nero di queste dimensioni, le dimensioni dell'astronauta sono addirittura maggiori delle dimensioni del buco nero. E quindi punti diversi del corpo dell'astronauta sarebbero sottoposti ad un'accelerazione di gravità diversa. Sarebbe questo a fotterlo, ancor prima di cadere dentro l'orizzonte degli eventi, perché si tradurrebbe in una specie di forza di marea che lo farebbe a pezzi prima ancora di cadere nell'orizzonte degli eventi.

Questo è vero in generale per tutti i buchi neri di dimensioni relativamente piccole, fino a qualche chilometro. Il risultato sono grandi forze di marea sul corpo che cade, dovute appunto alla diversa accelerazione di gravità che punti diversi del corpo percepirebbero avvicinandosi all'orizzonte degli eventi. Nei pressi di un buco nero di piccole dimensioni questo effetto sarebbe enorme. Però, siccome le forze di marea diminuiscono con il cubo della distanza se ci si allontana dalla sorgente del campo gravitazionale, a distanze di alcune centinaia di chilometri sarebbero già irrilevanti. 

Possiamo anche pensare di calcolare la densità di un buco nero, definendola come la sua massa diviso il suo volume. Di nuovo, il volume è il volume della sfera delimitata dall'orizzonte degli eventi, e non è il vero volume del buco nero, che non abbiamo idea di cosa possa essere, né sappiamo cosa succeda alla materia dentro a un buco nero. Quindi la densità di un buco nero non sappiamo in realtà cosa sia, e questo è solo un calcolo matematico in base alla definizione di densità che abbiamo dato. Comunque, siccome la massa di un buco nero e il suo raggio sono proporzionali (vedi la formula che da R(s)), e siccome la densità è la massa diviso il volume, e siccome il volume di una sfera è proporzionale al suo raggio al cubo, allora per un buco nero la densità, cioè la massa diviso il volume, è proporzionale all'inverso del suo raggio al quadrato.

Risultato: se un buco nero è molto piccolo, tipo la terra o il sole, la sua densità è enorme. Ma se un buco nero ha un raggio enorme, la sua densità può diventare bassa.

Di buchi neri enormi ne conosciamo molti. Si pensa che praticamente ogni grande galassia ne abbia uno al centro. La nostra Via Lattea, per esempio, non se l'è fatto mancare. Si chiama Sagittarius A, ed è un buco nero con una massa pari ad alcuni milioni di masse solari. Le sue dimensioni sono dell'ordine di una decina di milioni di chilometri, più o meno un terzo del raggio dell'orbita di Mercurio. 

In giro per l'universo, nei nuclei di galassie, ci sono buchi neri supermassicci con masse pari ad alcune decine di miliardi di masse solari. Un buco nero con una massa pari a 10 miliardi di masse solari ha un raggio di Schwarzschild di circa 30 miliardi di Km, che corrispondono a 5 o 6 volte le dimensioni del sistema solare. Un buco nero di questo tipo avrebbe densità inferiore a quella dell'acqua. Ho usato questo esempio per sottolineare come non sia necessario impacchettare la materia in modo superdenso per ottenere un buco nero. Se si ha a disposizione una massa enorme, miliardi e miliardi di stelle, non c'è bisogno di comprimere la materia in modo spropositato per avere un buco nero.

Cosa accadrebbe a uno sventurato astronauta che si avvicinasse incautamente a questo oggetto di così grandi dimensioni?  Precipitando in caduta libera non percepirebbe niente di particolarmente strano, e finirebbe ingoiato probabilmente senza accorgersene. Perfino l'attraversamento dell'orizzonte degli eventi, per l'astronauta sarebbe un evento non particolarmente degno di nota. Spesso si crede che oltrepassare l'orizzonte degli eventi significhi la distruzione di chi lo attraversa: non è vero. Chi sta fuori vedrà l'immagine di chi sta cadendo congelarsi nell'attraversamento, ma chi cade dirà "finora tutto bene", come quando si cade da un grattacielo. Attraverserà quindi l'orizzonte degli eventi senza notare nulla di strano, ma non potrà mai raccontarlo. Nella realtà attorno a questi oggetti la materia delle stelle circostanti viene convogliata e strizzata raggiungendo temperature altissime, con grande emissioni di raggi gamma e di particelle ionizzanti ad altissima energia, rendendo i buchi neri di questo tipo la sede di fenomeni tra i più estremi dell'universo. Sicuramente non il posto ideale per fare esperimenti di fisica.









domenica 5 giugno 2016

Il più grande errore di calcolo della storia

Sbagliare un calcolo di 120 ordini di grandezza


Immaginiamo di dover risolvere un problema che abbiamo affrontato altre volte con successo, tipo calcolare, al meglio che possiamo, l'area di una superficie di un prato, o di un appartamento. Se è un quadrato o un rettangolo, o un poligono regolare è facile, abbiamo tutti gli strumenti di calcolo che ci forniscono un risultato praticamente esatto. Se è una figura un po' più strana, magari con qualche linea curva, possiamo fare una stima usando delle approssimazioni. Non sarà una misura perfetta, ma siamo confidenti che, se teniamo conto di tutto con sufficiente cura, il risultato non sarà poi tanto diverso dal valore vero. E infatti, se proviamo con superfici anche molto diverse fra loro, scopriamo che il nostro metodo è in genere preciso, e in alcuni casi molto preciso.

Adesso supponiamo che ci diano una nuova superficie da misurare. Non è di quelle facili facili, ma concettualmente il problema non sembra diverso dagli altri già affrontati: si tratta di utilizzare quel metodo, che in tanti casi si era dimostrato valido, anche per questo nuovo caso.

E supponiamo però che, alla fine dei nostri calcoli, il risultato venga sbagliato. Ma non sbagliato in modo comunque accettabile: mostruosamente sbagliato! Ben 120 ordini di grandezza di differenza! Il vero valore era - mettiamo - 1, e a noi invece viene, in base ai nostri calcoli, 1000000000 000000000 000000000 000000000 000000000 000000000 000000000 0000000000 0000000000 0000000000 0000000000 0000000000.

Sembra impossibile vero? Alla faccia dell'errore di calcolo! Penseremmo che deve esserci per forza qualcosa di strano. Qualcosa, in quella nuova superficie, che fa sì che il metodo che avevamo sempre usato non sia affatto applicabile. Qualcosa di cui non abbiamo tenuto conto che rende assurdamente sbagliato il risultato. Ma non può essere qualcosa da poco, perché per sbagliare di 120 ordini di grandezza vuol dire che quel qualcosa che non abbiamo considerato deve essere talmente importante da farci ritenere che manchi qualcosa di assolutamente fondamentale alle nostre conoscenze. 

Può sembrare un problema assurdo per quanto è esagerato, ma è quello che succede ai fisici quando provano a calcolare l'energia del vuoto. Il risultato viene sbagliato di 120 ordini di grandezza. Il più grande errore di calcolo della storia.


Prima di chiederci cosa significhi il concetto di energia per il vuoto, cioè di qualcosa che, secondo la parola, non dovrebbe contenere niente, diciamo che è possibile determinare questa energia da misure astrofisiche e cosmologiche, e quindi per via sperimentale. Questo perché l'energia del vuoto, ovvero l'energia contenuta nello spazio, qualunque cosa ne sia la causa, entra nella descrizione della dinamica dell'universo, influendo sull'espansione dell'universo stesso. Quindi da misure precise su come si allontanano le galassie e su come lo facevano in passato (ovvero quando guardiamo galassie più distanti, che è il modo che abbiamo per viaggiare indietro nel tempo), riusciamo a stimare quanta energia è associabile al vuoto, allo spazio stesso.

La cosa interessante è che nella relatività generale l'energia associata al vuoto corrisponde a una pressione diretta verso l'esterno, ovvero a una forza repulsiva: una forza che spinge via le galassie. E questo è quello che viene effettivamente osservato: le galassie non solo si allontanano fra loro, ma aumentano la velocità con cui si allontanano. La presenza di spazio vuoto fra le galassie produce una forza che le allontana. Più aumenta questo spazio, più le galassie vengono spinte via una dall'altra. Le misure attuali sulla velocità di espansione dell'universo implicano una densità di energia del vuoto di un milionesimo di erg per centimetro cubo di spazio (più o meno l'energia di un singolo granellino di polline microscopico che si muove a una velocità di qualche metro all'ora). Un'energia molto piccola, ma non nulla, e che sommata su tutto lo spazio che c'è fra le galassie diventa un numero importante. Talmente importante da costituire circa il 70% di tutta l'energia dell'universo. In cosmologia l'energia del vuoto è associata alla cosiddetta "dark energy", o "energia oscura". In questo articolo parlerò a volte di energia del vuoto, a volte di densità di energia del vuoto. In realtà intendo la stessa cosa, e il termine corretto sarebbe densità di energia del vuoto.

Il vuoto quindi ha una densità di energia molto piccola, ma tuttavia ce l'ha. Se l'energia del vuoto fosse significativamente maggiore, le caratteristiche dell'universo stesso sarebbero molto diverse da quelle che osserviamo, e noi non saremmo qui, perché non sarebbe stato possibile in passato formare stelle e galassie a causa dell'espansione "troppo veloce" dell'universo. L'energia del vuoto, o meglio la densità di energia del vuoto, per il semplice fatto che esistiamo, deve essere quindi piccola. E infatti misuriamo qualcosa di piccolo.

Appurato questo, adesso però chiariamo cosa vuol dire che il vuoto ha un'energia, e come è possibile calcolarla, per poi confrontare il calcolo con la misura e vedere se il nostro calcolo torna con quello che osserviamo.

Detto così sembrerebbe comunque un'assurdità: il vuoto è vuoto, non c'è niente, e quindi la sua energia sarà zero, verrebbe da dire. Il problema è che il vuoto in fisica è molto diverso da come intendiamo idealmente il vuoto, che è un concetto che in realtà già anche filosoficamente ci da dei problemi a definirlo. Nel mondo della fisica il vuoto è molto più complesso di quello che il nome lascerebbe supporre. La colpa è della meccanica quantistica, senza la quale il tentativo di descrivere i fenomeni microscopici fallisce miseramente.

Il vuoto in fisica è definito come lo stato di minore energia possibile. Anche se riuscissimo ad eliminare tutta la materia, il vuoto, quando lo si osserva su scale spaziali molto piccole, ci apparirebbe come un continuo pullulare di coppie particella-antiparticella, che nascono e muoiono di continuo. Questo fermento di particelle che si manifestano e scompaiono in tempi brevissimi è possibile, anzi è obbligatorio, grazie al principio di indeterminazione di Heisenberg, una legge fondamentale della meccanica quantistica. Il principio di Heisenberg impone a qualunque sistema fisico di non poter avere un'energia determinata con assoluta precisione. Questo significa che l'energia minima di un sistema come il vuoto non può essere rigorosamente zero, come la parola vuoto lascerebbe supporre, ma deve fluttuare attorno allo zero.  Siccome in fisica esistono campi di vario tipo (elettromagnetico, debole, di Higgs, etc) che permeano lo spazio, ognuno di questi campi, anche in condizioni di vuoto contribuirà all'energia contenuta nello spazio con le fluttuazioni attorno al proprio minimo di energia. Queste fluttuazioni sono possibili per l'appunto grazie al principio di indeterminazione.

La densità di energia del vuoto è quindi la media dei contributi di tutti questi processi quantistici, che possono coinvolgere particelle anche molto pesanti esistenti soltanto per intervalli di tempo via via più infinitesimi.

Questi effetti quantistici del vuoto, bisogna sottolinearlo, non sono una semplice teoria, ma sono ampiamente verificati da molti esperimenti. Esiste un fenomeno, che si chiama effetto Casimir, che consiste nella forza attrattiva che si produce fra due piastre parallele nel vuoto, poste a distanza dell'ordine del micron, dovuta proprio agli effetti quantistici del vuoto. Un effetto che è stato effettivamente misurato.

Più in generale gli effetti quantistici virtuali che sono alla base dell'energia del vuoto sono ingredienti fondamentali nei processi della cosiddetta "elettrodinamica quantistica", cioè la teoria quantistica dell'elettromagnetismo. Questa è la teoria fisica che vanta di gran lunga il maggiore accordo fra previsioni teoriche e misure sperimentali, con precisioni che arrivano a una parte su un milione di miliardi. Nessun calcolo, nessuna previsione teorica di un fenomeno fisico, nemmeno tra quelli più banali, è confermato dagli esperimenti a questo incredibile livello di precisione.

In modo analogo, sebbene con precisioni inferiori, ma comunque molto elevate, i calcoli teorici di fenomeni che hanno a che fare con le interazioni cosiddette "elettrodeboli" sono confermati dai risultati sperimentali. In tutti questi casi, per effettuare calcoli accurati che combacino con le misure molto precise degli esperimenti, si deve tenere conto di questi subdoli effetti quantistici. Senza di essi le previsioni teoriche sarebbero sballate. E tutto questo ci rende confidenti del fatto che questa descrizione apparentemente fantasiosa e stravagante delle proprietà quantistiche del vuoto è quantomeno appropriata.

In sostanza quindi i fisici dispongono di uno strumento di calcolo (la teoria quantistica dei campi) estremamente preciso, e che è stato testato con grande accuratezza in molti problemi di tipo diverso in cui è necessario considerare gli effetti quantistici dell vuoto. E' l'analogo del nostro sistema per calcolare le aree: abbiamo provato ad applicarlo a tante superfici diverse, e l'accordo fra teoria e esperimento è stato sempre elevato, in certi casi estremamente elevato, e questo ci da sicurezza sulla validità del metodo di calcolo.

E quindi i fisici, forti di questi successi, applicano questo strumento di calcolo per determinare matematicamente l'energia del vuoto, cosa che equivale a sommare le energie minime (si chiamano energie di punto zero, in gergo) di tutti i possibili campi esistenti. Il problema però è che più le vibrazioni dei campi hanno lunghezza d'onda piccola (corrispondenti a piccole scale spaziali), più hanno frequenza maggiore, ovvero energia maggiore, e quindi contribuiscono maggiormente al computo totale dell'energia del vuoto. E se si ammette che lo spazio-tempo possa avere dimensioni piccole quanto ci pare, la somma dei contributi di tutto questo pullulare di particelle-antiparticelle con frequenze-energie grandi fino all'infinito diventa un numero infinito. Ovvero il vuoto dovrebbe avere un'energia infinita, in netto contrasto con l'energia piccola, sebbene non nulla, che osserviamo.

Però i fisici suppongono che sotto certe distanze molto piccole, per le quali la forza di gravità diventerebbe essa stessa determinante, la struttura stessa dello spazio tempo perda di significato, e quindi non si possa parlare di dimensioni spazio-temporali infinitamente piccole. Bisogna fermarsi ad un certo punto, ad una scala di distanze minima che si chiama "scala di Planck", oltre la quale il concetto stesso di spazio e tempo smettono di valere. Però questa è una magra soddisfazione, perché anche ammettendo che sotto la distanza d Planck non abbia più senso parlare di distanze, la somma dei contributi di questi campi su scale spaziali così piccole darebbe comunque al vuoto un'energia enorme: 120 ordini di grandezza più grande di quanto misurato. 

Questa differenza spropositata fra l'energia del vuoto misurata e quella calcolata è spesso chiamata il problema della costante cosmologica, oppure la catastrofe del vuoto. Essa si può sintetizzare con il fatto che da un lato constatiamo, con le osservazioni sperimentali sul moto delle galassie e sull'evoluzione passata dell'universo, che la densità di energia del vuoto è molto piccola. E d'altra parte se non fosse così noi non potremmo esistere, perché il fatto che il vuoto abbia una densità di energia non nulla implica una forza repulsiva nei confronti della materia. E quindi l'universo, con una densità di energia troppo grande, si sarebbe espanso troppo velocemente per permettere la formazione di strutture complesse come le stelle e le galassie. D'altra parte, utilizzando la meccanica quantistica, cioè lo strumento di calcolo più efficace e predittivo che abbiamo per studiare il mondo submicroscopico, ci ritroviamo una previsione teorica della densità di energia del vuoto che è 120 ordini di grandezza più grande di ciò che misuriamo. E siccome nella scienza le misure contano sempre più dei calcoli teorici, questo ci induce a pensare che in quel calcolo teorico qualcosa non va. Non abbiamo idea di cosa sia, ma di sicuro c'è qualcosa che non è stato considerato in modo corretto.
 
Una possibilità è che esista in natura qualche meccanismo che cancelli perfettamente questi contributi quantistici all'energia del vuoto, in modo da produrre un'energia del vuoto sostanzialmente nulla. Ad esempio un tipo di particelle (sconosciuto) che dia effetti analoghi all'energia del vuoto, ma con segno opposto. Se un meccanismo del genere esiste, di certo non abbiamo idea di quale sia. Ci aveva provato la teoria della supersimmetria, che comunque nella pratica non riesce a cancellare questo effetto gigantesco, e poi, ancor più nella pratica, alla luce degli ultimi esperimenti, sembra che non esista neanche. Non sempre le cose vanno come piacerebbero ai fisici.

Nella teoria dei campi, tuttavia, non sono determinanti le energie assolute, ma le differenze di energia, come accade ad esempio con il potenziale elettrico o gravitazionale, che è sempre definito rispetto a un valore di riferimento. Tanto per capirci, quando ci cade un piatto di mano, e ci chiediamo se cadendo a terra si può rompere, non ci interessa la sua energia potenziale assoluta, che non si sa bene quale sia, ma la sua differenza di energia potenziale rispetto al pavimento. E' quella che causa i danni, e che ha effetto sulle quantità osservabili (nel nostro caso il destino del piatto). Quindi, in linea di principio, è possibile definire in modo analogo una densità di energia di riferimento per il vuoto, uno zero di energia che sia grande quanto i 120 ordini di grandezza, in modo che il risultato sia una densità di energia del vuoto netta sostanzialmente vicina allo zero. Se a un numero spropositatamente grande ci sottraggo un altro numero spropositamente grande e quasi uguale, il risultato è quasi zero. Questo processo in fisica si chiama "rinormalizzazione". In linea di principio uno potrebbe fare lo stesso anche con l'energia del vuoto. C'è però un problema.

Il problema è che questa scelta dell'energia zero, del riferimento rispetto a cui misurare l'energia, e che deve essere tale da rendere praticamente nulla la densità di energia del vuoto, dipende fortemente da tutti quei fenomeni fisici a noi sostanzialmente sconosciuti che avvengono a qualunque scala spaziale infinitesima, fino ad energie spropositamente grandi - la cosiddetta energia di Planck - alla quale la forza di gravità diventa dominante perfino nel mondo microscopico. 

Questa cosa disturba molto i fisici, perché tutta la nostra conoscenza dei fenomeni naturali si basa sul fatto che ciò che avviene a scale molto diverse da quella a cui stiamo lavorando non ha mai influenza. Per capirci, per descrivere le proprietà chimiche di una molecola d'acqua non ci dobbiamo preoccupare di come si muovono le onde del mare che la contiene, né di come i quark contenuti all'interno dei protoni dei nuclei di idrogeno e ossigeno che compongono la molecola stessa stiano interagendo fra loro. Per costruire un palazzo non dobbiamo tener conto di come si muove la terra attorno al sole, né di cosa succede negli orbitali degli atomi del ferro che utilizziamo. E per studiare il moto dei pianeti attorno al sole non ci interessa sapere come si muove la nostra galassia nel superammasso locale di galassie, né di come gli atomi e le molecole che costituiscono i pianeti si uniscano fra loro in molecole. 

Ogni scala di distanza-energia è disaccoppiata dal resto, per cui per studiare un fenomeno ad una certa scala non dobbiamo preoccuparci di ciò che avviene a scale diverse. La fisica è tutto un insieme di teorie "efficaci", come si usa dire, che sono "protette" dalla nostra eventuale ignoranza su quello che può succedere a scale diverse. E' grazie a questo che siamo riusciti a riempire i libri di fisica con gradualità, e possiamo continuare a farlo, senza dover sapere tutto. E' grazie a questo che Newton ha potuto formulare la sua teoria della gravitazione senza nemmeno avere idea di cos'era un atomo.

Nel caso dell'energia del vuoto questo non sarebbe più vero, perché vorrebbe dire che per descrivere il mondo del quotidiano dovremmo preoccuparci di ciò che avviene a energie che si sono presentate soltanto nel primo istante di vita dell'universo, quando l'universo aveva una densità di energia che era 120 ordini di grandezza più grande di quella di oggi, perché la nostra energia di riferimento, quella rispetto a cui misurare l'energia del vuoto, dipende proprio da quelle condizioni estreme e irripetibili. Un problema non degno di nota per quasi tutti ma non per i fisici.