giovedì 24 settembre 2015

Vedere gli atomi col microscopio della befana

Un'impresa impossibile, e non perché il microscopio costa poco


Una volta, da bambino, la befana della SIP (la futura Telecom) mi regalò un microscopio. Non era un vero microscopio di quelli da laboratorio, ma una specie di proiettore, che infilavi dentro il vetrino come se fosse una diapositiva e lui te lo proiettava ingrandito sul muro bianco. Si chiamava "Elettromicroscopio", un nome che già da solo ti viene da dire: "mecojoni!". E poi specificava "20000 ingrandimenti". Una macchina fantascientifica per un bambino di 8 o 9 anni.




Nella confezione c'erano alcuni vetrini pronti, e anche le istruzioni per prepararne altri per conto proprio. Tra queste, mi ricordo, c'era la spiegazione su come vedere le cellule! E non diceva di prendere un uovo dal frigo. Diceva di prendere una cipolla, togliere quella pellicina trasparente che sta fra un guscio e l'altro, adagiarla fra due vetrini, metterci una goccia di limone (Cracco avrebbe specificato che doveva essere assolutamente un limone di Amalfi) e le cellule sarebbero apparse miracolosamente sul muro della cucina!

E era vero! Perfino senza limone si vedevano tutti mattoncini allungati, uno attaccato all'altro, a costituire la pellicina della cipolla. E dentro ciascuno di quei mattoncini si vedeva anche un puntino più scuro: il nucleo. Tutto proprio come nei disegni dei libri! Per me fu un successo, una scoperta da premio Nobel! Abbiate pazienza, ero figlio unico, e senza facebook, whatsapp e videogiochi (il tennis con le due sbarrette avrebbe iniziato a traviare la gioventù dopo qualche anno) in gennaio dovevo riempirmi il tempo in qualche modo.

E non pago di avere visto le cellule così al primo colpo mi dissi che se avessi messo il proiettore molto più distante avrei potuto vedere oggetti molto più piccoli! Furbo no? La mia ambizione, lo confesso, erano gli atomi. Vedere gli atomi con il microscopio della befana!

Avevo una casa con un corridoio lungo che sfociava nella sala, per cui misi il proiettore a un estremo del corridoio, tolsi tutti gli ostacoli di mezzo (mia madre mi guardava con preoccupazione), imposi il buio totale nella casa e accesi l'interruttore. A 10-12 metri di distanza comparve una debole macchia grigiastra, una specie di ectoplasma indefinito. Nessuna traccia delle mie amate cellule appena scoperte e men che meno degli atomi. La conoscenza scientifica, d'altra parte, si sa che procede anche attraverso grandi fallimenti!

Quello che non sapevo nella mia idea di poter vedere gli atomi erano tre cose in ordine di importanza sempre più fondamentale:

Primo: il mio elettromicroscopio non era proprio il top della tecnologia nel campo, diciamo. D'altra parte il budget della befana, si sa, è stato sempre un po' limitato, dopo che il marito lo spende tutto per Natale.  L'ottica non era esattamente una Zeiss, e la luminosità era simile a quella di uno colino per il latte. A 10 metri di distanza, con la quantità di luce che sullo schermo diminuisce come l'inverso della distanza al quadrato, quello che veniva fuori era un esperimento di pareidolia, quelle cose che uno proietta un'immagine informe e, se è particolarmente invasato, ci vede la nonna che lo saluta dall'aldilà.

Secondo: gli atomi sono MOLTO più piccoli delle cellule. Se una cellula è grande, diciamo, 10 micron , un atomo è "grande" 100000 molte meno. Dieci miliardesimi di centimetro, un decimo di nanometro. Quindi per vedere un atomo con dimensioni pari a quelle con cui vedevo la cellula della cipolla sarei dovuto andare con lo schermo non a 10 metri di distanza, ma a 100 mila metri. Cento chilometri. Altro che in fondo al corridoio!

Terzo: last but not least, anche se avessi avuto il miglior microscopio del mondo, con le lenti più perfette e una luminosità strepitosa per illuminare lo schermo a cento chilometri di distanza, anche se la befana si fosse svenata quell'anno, io gli atomi non li avrei potuti vedere comunque, perché con un microscopio ottico (cioè che usa la luce visibile per illuminare il campione) gli atomi non si possono vedere. E se il primo punto mi era apparso chiaro quando avevo visto quella macchia sbiadita sul muro della sala, e circa il secondo avevo più o meno intuito che dieci metri di corridoio, invece che un metro, potevano essere pochini per vedere gli atomi, il terzo proprio non lo sapevo.

Non c'è verso, e non è un problema tecnologico. Non sono le lenti non sufficientemente perfette né la lampadina che non fa abbastanza luce. E' proprio un problema di leggi della natura: con un microscopio gli atomi non si potranno mai vedere, nemmeno con gli ingrandimenti a manetta. E contro le leggi della natura non possiamo proprio farci niente.

E il motivo è che in un microscopio ottico come quello della befana della SIP, ma anche nel miglior microscopio da laboratorio, per vedere quello che c'è sul vetrino si usa la luce. La luce, che viene da una lampadina o dal sole che entra dalla finestra, deve illuminare l'oggetto sul vetrino, e attraverso le lenti portare all'occhio le informazioni sulla forme, la struttura, il colore di quello che c'è sul vetrino. Dei DETTAGLI di quello che c'è sul vetrino. E per fare questo la luce deve interagire con quei dettagli. Deve lasciare il vetrino e dirigersi al nostro occhio "modificata" dall'interazione con quei dettagli. Deve riportarci l'informazione che quell'oggetto ha un colore una forma, una dimensione.

Solo che c'è un problema. La luce visibile, essendo un'onda elettromagnetica, come tutte le onde ha la proprietà di avere quella che si chiama "lunghezza d'onda", che è la distanza fra due creste dell'onda. Le onde del mare hanno lunghezze d'onda che possono essere di qualche metro, fino a centinaia di metri se sono onde oceaniche. Le onde sonore hanno lunghezze d'onda di svariati metri fino a qualche millimetro, mentre le onde della luce del sole o di una lampadina, la luce che vediamo, hanno lunghezze d'onda che vanno dai 400 ai 700 miliardesimi di metro (400 - 700 nanometri). Se è luce violetta 400 nanometri, se è rossa 700 nanometri.

Perché questo è importante? Perché quando un'onda incide su un oggetto che è più piccolo della sua lunghezza d'onda, non riesce più a "vedere" quell'oggetto. Se illuminate un oggetto molto più grande della lunghezza d'onda della luce che utilizzate, non ci sono problemi: lo vedete bello nitido in tutto il suo splendore. Ma se piano piano rendete l'oggetto sempre più piccolo, quando questo diventa di dimensioni confrontabili con la lunghezza d'onda della luce che state usando, i contorni dell'oggetto diventano sempre più sbavati e indefiniti.

Avviene un fenomeno che si chiama diffrazione, che si traduce nel fatto che quell'oggetto, prima bello nitido, adesso lo si vede a malapena come una macchia confusa. E se l'oggetto diventa più piccolo della lunghezza d'onda della luce che lo illumina... scompare. La luce non lo vede più. Non è più in grado di interagirci, e di riportarci quelle informazioni che vorremmo sulla sua forma e colore. E' lo stesso motivo per cui le onde del mare vedono (ovvero ne sono influenzate) una petroliera ma non un materassino, e ancor meno un tappo che galleggia.

Quindi quando illuminiamo un oggetto su un vetrino, i dettagli più piccoli che possiamo sperare di vedere, anche con il miglior microscopio ottico del mondo, sono quelli non più piccoli della lunghezza d'onda della luce che utilizziamo. Se c'è qualcosa di più piccolo, qualche dettaglio, qualche struttura di dimensioni inferiori, questa resta invisibile.

E l'atomo? L'atomo è grande qualcosa come 0,1 nanometri, cioè da 4000 a 7000 volte più piccolo della lunghezza d'onda della luce. Non c'è speranza! Nemmeno con l'elettromicroscopio della befana della SIP.

E allora come si fa? Come facciamo a sapere come è fatta la struttura della materia? Basta avere la luce giusta! Ma di questo magari ne parliamo un'altra volta. Stay tuned!


sabato 19 settembre 2015

Messner e lo Yeti

Ho visto lo Yeti, giuro! Però forse a pensarci bene era un orso. Quasi quasi ci scrivo un libro!


Anni fa comprai il libro "Yeti, leggenda e verità", di Reinhold Messner. Lo feci perché all'epoca Messner aveva dichiarato al mondo di aver incontrato lo Yeti (fonte) in più occasioni durante le sue spedizioni Himalayane. Vinse in me la curiosità di leggere il racconto di un personaggio mitico (Messner, non lo Yeti) che in fatto di alpinismo aveva battuto ogni record, superando perfino quelle che erano le aspettative per la fisiologia umana in alta quota.

Ora, premetto che per me buttare via un libro è un gesto orribile. La sola idea di aprire lo sportello della pattumiera e buttarci un libro, farlo cadere dentro assieme alle teste di pesce e alle bucce di banana (quella volta non c'era la differenziata, abbiate pazienza...) è qualcosa che mi genera raccapriccio. Eppure con quel libro l'ho fatto: l'ho finito di leggere e poi l'ho buttato via! Non ho neanche provato a regalarlo a qualcuno, non l'ho usato per spianare un tavolo zoppicante, e nemmeno l'ho lasciato su una panchina sperando che qualcuno si impietosisse e lo prendesse. No, proprio l'ho buttato. E non me ne sono nemmeno pentito, se non per il fatto che adesso, se lo avessi ancora con me (è fuori catalogo da anni, e magari diventerà una rarità come il Gronchi rosa), potrei citarvene testualmente alcuni passi, perché è di quel libro che voglio parlare.

Il libro inizia con l'incontro del grande alpinista altoatesino con lo Yeti. Di ritorno da uno dei suoi picnic himalayani, Il nostro eroe, un filo stanco e provato da un paio di mesi di alta quota, stava scendendo a valle nella zona fra l'Amdo e il Kham, nel Tibet nord-orientale. E mentre se ne stava bello tranquillo a girovagare ecco apparire di fronte a lui, a una ventina di metri di distanza, un essere misterioso, imponente e completamente ricoperto di peli: il mitico Yeti! Messner stesso lo descrive come un essere alto circa due metri e mezzo, il cui peso si aggirerebbe intorno ai 300 chili, con un pelo folto e lungo più di 30 cm, una lunga capigliatura e braccia lunghe fino alle ginocchia (fonte). Nella figura è riportata (sulla destra) la rappresentazione redatta con perizia leonardesca dello Yeti, in un disegno originale dello stesso Messner (raffigurato invece sulla sinistra).
La scritta dice: disegno originale Di Messner
Sembra che i due si siano guardati per un po', e poi lo Yeti abbia fatto dietrofront allontanandosi a passo svelto, e controllandosi ogni tanto alle spalle di non essere seguito, anche perché, diciamocelo, dopo un paio di mesi passati in alta quota senza lavarsi, Messner non doveva propriamente somigliare al testimonial della Gilette.

Per inciso sembra che da allora, presso gli Yeti, si sia diffusa la leggenda di un essere misterioso, enorme e peloso, a loro simile nella corporatura e nel portamento ma molto più brutto, che si narra vaghi nelle lande desolate di quelle terre lontane emettendo indecifrabili emissioni vocali.

Messner nel suo libro ci descrive lo Yeti come sostanzialmente viene descritto nella sua tipica iconografia. Dopo questo scoppiettante inizio a effetto, però, il noto alpinista comincia a ragionare su cosa potrebbe essere questa misteriosa creatura da lui osservata da vicino. E dall'aver detto che era lo Yeti, piano piano comincia una lenta ritrattazione. Inizia buttando lì che in Tibet ci sono anche gli orsi, e anzi, quelli tibetani sono pure belli grossi, e che insomma, lo Yeti potrebbe alla fin fine essere un orso, e che anzi, in alcune zone conservano pellicce di orso credendo che siano di Yeti, e che insomma - suvvia! - è chiaro come il sole che lo yeti non è altro che un orso! Un libro di 300 pagine per dire questo, mentre il lettore si trascina incredulo di pagina in pagina, pensando speranzoso che prima o poi ci sia un colpo di scena, perché non è possibile che uno scambi un orso per lo yeti! E invece niente, alla fine il nostro è talmente certo che si tratti di un orso da incazzarsi pure con chi lo mette in dubbio (fonte).

Adesso, per carità, con tutto il rispetto per la tua capacità di alpinista e esploratore, ma benedetto Messner, insomma! Io una volta ho visto un orso. Anzi, da quella volta, come a te con lo Yeti, mi è successo diverse volte di vedere un orso libero in natura. La prima volta stavo facendo una camminata lungo un sentiero di un parco nazionale in California, e sebbene non avessi mai visto un orso dal vero prima di allora, e men che meno libero in natura, quando mi sono trovato questa bestia davanti a me (anche in quel caso a una ventina di metri di distanza) senza pensarci più di un millesimo di secondo di tempo mi sono detto: "Cazzo c'è un orso!".

Non è che ho pensato tra me e me: "ohibò! e cosa sarà mai adesso questo essere misterioso, enorme e peloso, che mi si para davanti? Sarà forse lo Yeti, oppure, visto che siamo in California, Bigfoot, il suo cuginone stupido americano?". Non mi è nemmeno sfiorato per l'anticamera del cervello che potesse essere qualcosa di diverso da un orso! Un orso è un orso, cazzo, e anche se non sei abituato a vederlo dal vivo, se lo vedi in un bosco che si gratta la schiena su un tronco, non è che la prima cosa che ti viene in mente è che sia uno Yeti o qualche altro misterioso essere ancora non catalogato dagli zoologi e corri a casa per scriverci un libro!

E' come se, incontrando un pollo nella foresta dove hanno girato Jurassic Park, uno dicesse "Porcaputtana c'è un Archaeopteryx!!! Allora è vero che non si sono estinti del tutto!". E poi tornasse a casa e scrivesse il libro "Archaeopteryx: leggenda e verità" raccontando dell'incontro con questo uccello misterioso dal piumaggio bruno e screziato e dagli artigli acuminati, per poi piano piano fare marcia indietro e dire che tutto sommato poteva anche trattarsi di una gallina. Capisco che la permanenza in alta quota con poco ossigeno possa dare luogo a errori di valutazione, però eccheccazzo!

sabato 12 settembre 2015

Smascherare un falsario con le bombe atomiche

Un quadro del Guggenheim sospettato di essere un falso: la conferma viene dalla fisica nucleare.



Di recente un gruppo di ricercatori dell'Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) ha scoperto che un quadro acquistato da Peggy Guggenheim, e attribuito a Fernand Léger, è sicuramente un falso. Il verdetto non è motivato dalla lunga esperienza di storici e critici d'arte dei fisici dell'INFN, ma dalla datazione con il Carbonio14. Ma non è questa la cosa veramente interessante.

Dopo che Douglas Cooper, esperto di Léger, negli anni 70 aveva espresso i suoi dubbi sull'autenticità del quadro,  per decenni storici, critici, studiosi ed esperti non hanno saputo esprimersi in modo definitivo sullo status dell’opera. Oggi il verdetto della datazione con il Carbonio14 indica senza dubbio alcuno che la tela su cui è stato dipinto il quadro è posteriore al 1959, ovvero successiva di almeno 4 anni alla morte del pittore francese che si supponeva fosse l'autore.

Come si è potuto raggiungere una precisione così alta con la datazione del Carbonio14, in particolare per un oggetto così recente?  Per capirlo vediamo prima come si effettua la datazione con il metodo del Carbonio14.

Il Carbonio è un elemento fondamentale per la vita sulla terra, è presente in tutte le sostanze organiche, nonchè nella ben nota CO2, l'anidride carbonica. Un atomo di Carbonio ha 6 elettroni all'esterno, e quindi anche 6 protoni nel nucleo interno (la carica elettrica deve essere sempre bilanciata e pari a zero). In più il nucleo di Carbonio può avere 6, 7, oppure 8 neutroni. A seconda del numero di neutroni presenti nel nucleo il numero totale di protoni e neutroni è quindi 12, 13 o 14. Si parla in questi casi di isotopi diversi del Carbonio.


Dal punto di vista chimico gli isotopi si comportano tutti esattamente allo stesso modo: gli stessi legami chimici, lo stesso comportamento nelle molecole. L'anidride carbonica è sempre anidride carbonica sia che il Carbonio al suo interno sia l'isotopo 12, 13 o 14. Stesse bolle nella Coca Cola, per capirci. Questo perché tutta la chimica è regolata dagli elettroni esterni dell'atomo e dai loro legami elettrici, e non da quello che avviene nel nucleo atomico, che sta all'interno.

Gli esseri viventi acquisiscono Carbonio tramite la fotosintesi, o mangiando le piante (o mangiando altri esseri viventi che hanno mangiato piante). La natura, quando deve costruire una molecola con il carbonio, pesca quindi a caso gli isotopi del carbonio che ci sono in giro disponibili, perché tanto, per costruire le molecole, gli isotopi non fanno alcuna differenza. Quindi il contenuto di Carbonio 14 rispetto al Carbonio 12 (da adesso in poi chiamiamoli C14 e C12, per fare prima) nelle molecole organiche che si formano rispecchia il contenuto di C14 rispetto al C12 presente nell'atmosfera. Del C13, che - poverino - rappresenta solo l'1% del Carbonio presente sulla terra, in questo discorso non ci interessa.

Il nucleo del C14, al contrario del C12, ha la caratteristica di  essere instabile. Dopò un po', quando gli tira a lui, smette di colpo di essere un nucleo di Carbonio e si trasforma in un nucleo di Azoto, emettendo alcune particelle che chiamiamo genericamente "radioattività". E' un processo che tecnicamente si chiama "decadimento Beta", e avviene in modo del tutto naturale. Non si può in nessun modo prevedere quando un singolo nucleo di C14 deciderà di "decadere" trasformandosi in Azoto, perchè è un processo regolato dalla meccanica quantistica, e possiamo solo predire la probabilità che avvenga in un certo tempo. Il risultato è che se prendiamo un numero molto grande di nuclei di C14, dopo 5730 anni quel numero iniziale si sarà ridotto della metà. Quel periodo di tempo, 5730 anni, è caratteristico del C14, e si chiama tempo di dimezzamento.

Ma niente paura, perché il C14 viene prodotto continuamente in natura negli strati alti dell'atmosfera, fra 9 e 15 Km di quota, dove i raggi cosmici "sbattono" contro i nuclei degli atomi di azoto presenti nell'atmosfera stessa. Il risultato è che si instaura un equilibrio dinamico tra il C14 che decade e quello che viene prodotto, per cui la frazione di C14 rispetto a C12 è grossomodo costante nel tempo.

Quindi, finchè un essere vivente è vivo, e scambia continuamente carbonio con l'atmosfera e lo assimila dagli altri esseri viventi, il suo contenuto di C14 rispetto al C12 resta costante, pari a quello presente nell'ecosistema in cui vive.

Quando muore, però, smette di assimilare carbonio "fresco". Da quel momento il C14 che egli ha nei suoi tessuti continuerà a decadere trasformandosi in Azoto senza essere rimpiazzato da nuovo C14, per cui il rapporto fra C14 e C12 al suo interno comincerà a diminuire. Ecco che quindi, misurando il rapporto di C14 su C12 nella materia organica di un essere vivente morto, e confrontandola con il rapporto C14 su C12 degli esseri viventi, e sapendo come diminuisce nel tempo il contenuto di C14, si può risalire a quanto tempo è passato dalla sua morte.

Pertanto se vogliamo datare un sarcofago egizio (fatto di legno, e quindi materiale organico), una sindone (fatta di lino, quindi materiale organico), una mummia (tutto materiale organico, comprese le bende) o una tela di un quadro (canapa, e quindi materiale organico), basta prenderne un pezzettino, preoccuparsi che non sia stato contaminato da materiale organico recente e, con opportune procedure ormai ben note e di largo utilizzo, misurare la frazione di C14 su C12, guardare le curve di calibrazione, e risalire all'epoca in cui quel materiale organico ha smesso di stare in un organismo vivente, ovvero ha smesso di ciucciare C14 fresco dall'atmosfera.

Alcune precisazioni importanti.
  •  Il metodo del C14 non funziona, ovviamente, su materia inorganica. Non serve a datare rocce, sculture in marmo o pezzi di ferro
  •  Il metodo del C14 non funziona su reperti molto antichi (ad esempio più vecchi di un milione di anni) o molto recenti (meno di 100 anni). Questo perché il tempo di dimezzamento di 5730 anni fa sì che se è passato molto tempo (ad esempio 1 milione di anni) di C14 la dentro ce n'è rimasto ben poco, e quindi è difficile misurarne la frazione con precisione, mentre, viceversa, se è passato troppo poco tempo, il C14 è praticamente ancora tutto li, e non ha fatto a tempo a ridursi in modo apprezzabile.

Ma allora come hanno fatto a datare un quadro di metà del 900? Non abbiamo appena detto che su periodi brevi il metodo di datazione con il C14 non è sufficientemente preciso?

In effetti sulla carta il C14 sarebbe inutile per datare un oggetto come il quadro di cui stiamo parlando, cioè fatto a metà del secolo scorso. Se non fosse che, più o meno a metà del secolo scorso, è successa una cosa particolare: alcuni esseri umani, per far vedere che erano più forti di altri esseri umani, si sono messi a far esplodere bombe atomiche come fossero petardi di capodanno. Dal 1951 al 1990, con qualche strascico dopo e qualche botto preparatorio prima, sono stati effettuati più di 2000 test nucleari, i principali concentrati negli anni 50-60. L'ordigno nucleare più potente della storia, la bomba "Tzar", è stato fatto esplodere nel nord della Siberia il 30 ottobre 1961, e aveva 50 megaton di potenza, più di 3300 volte quella di Hiroshima.

Le bombe atomiche, nella loro esplosione, emettono, tra le varie amenità, anche una grande quantità di neutroni i quali, interagendo con l'azoto dell'atmosfera, producono C14, proprio come fanno in modo naturale i raggi cosmici. Questo ha implicato un'innalzamento del naturale contenuto di C14 nell'atmosfera a seguito del gran numero di test nucleari, tanto da farne raddoppiare il contenuto in pochi anni. Nel grafico qua sotto si vede l'evoluzione della concentrazione del C14 nel tempo, con un chiarissimo picco negli anni 1963-65, per poi decrescere negli anni successivi, dopo la firma dei trattati internazionali per il bando dei test nucleari (il primo trattato sul bando parziale dei test nucleari fu ratificato nel 1963). E' interessante come il picco sia stato rilevato nell'emisfero sud con un ritardo di circa 2 anni, tempo necessario all'atmosfera per rimescolarsi (tutti i test erano effettuati nell'emisfero nord). La decrescita veloce dopo il picco non è dovuta al decadimento del C14, che di per sé darebbe una decrescita trascurabile nell'arco di tempo di 30 o 40 anni, ma allo scambio del C14 atmosferico con gli oceani. La decrescita rapida ci fornisce, incidentalmente, la misura di quanto velocemente il CO2 fluisce dall'atmosfera all'oceano e viceversa.

Bomb Spike Graph
Contenuto del C14 nell'atmosfera in funzione del tempo, dall'anno 1950 al 2010. Il "bomb peak" è chiaramente visibile attorno ai primi anni 60, più marcato nell'emisfero nord (in nero), e arrivato nell'emisfero sud (in rosso) con un paio di anni di ritardo.
Questo fenomeno è chiamato "bomb peak", e significa che per datare oggetti prodotti in quegli anni, gli archeologi del futuro dovranno tenere conto di questo effetto. Altrimenti si rischierebbe di classificare i vari reperti come molto più giovani di quello che in effetti sono. Ad esempio quando, fra 30 mila anni, la porta del cesso del regionale 2913 che prendo tutte le mattine verrà trovata da qualche archeologo del futuro, e verrà classificata come una misteriosa stele ricoperta di indecifrabili disegni a scopo probabilmente rituale, sarà necessario tenere conto del bomb peak per datarla correttamente.

Tornando al nostro quadro, quindi, gli esperti del Guggenheim di Venezia hanno prelevato una piccolissima quantità di tessuto da un risvolto della tela del dipinto sospettato di essere un falso, e l’hanno inviata al Laboratorio per l’ambiente e i beni culturali (LABEC) di Firenze dove i ricercatori, in collaborazione con colleghi della sezione INFN di Ferrara, l’hanno analizzata (con la tecnica della spettrometria di massa, utilizzando un acceleratore di particelle) per quantificare la concentrazione di radiocarbonio e risalire quindi alla data della tela (ovvero alla data in cui sono state tagliate le piante da cui è stata poi realizzata la tela), comparando i livelli di C14 presenti nel tessuto con quelli noti degli anni del bomb peak. Dall’analisi è risultata una concentrazione di C14 largamente superiore a quella che avrebbe dovuto esserci se l’opera fosse stata autentica, e cioè realizzata prima del bomb peak, quando l'autore era ancora vivo. La tela risale con assoluta certezza a non prima del 1959, quattro anni dopo la morte di Léger. Un falso, quindi.

giovedì 3 settembre 2015

La pasta e fagioli: il cibo più pericoloso al mondo (e non ve lo dicono!!!!)

I cibi che fanno benissimo e quelli che fanno malissimo

 

Secondo certi esperti salute di internet il mondo si divide in due grandi categorie: i cibi che causano il cancro e quelli che lo prevengono, o addirittura lo curano. Non esistono mezze misure: o un cibo fa malissimo oppure fa benissimo.

"Il cancro", dicono, come se esistesse "IL" cancro. Come se cancro alla tiroide, al pancreas o alle ossa fossero la stessa cosa. Chiedete a un oncologo: "scusi, che cosa causa IL cancro? E come si cura IL cancro?" e vedete cosa vi risponde. "Quale cancro?" vi dirà.

Ed ecco quindi, con frequenza settimanale, il post sulla sostanza più cancerogena della terra, o su quella che fa guarire tutto, con i soliti toni enfatici e eclatanti e le affermazioni che non lasciano mai spazio al dubbio, che per far tacere questa gente basterebbe dotarli di tastiere senza punti esclamativi e senza maiuscole, e non saprebbero più cosa scrivere.

Al di là del fatto che spesso si tratta di bufale, se non addirittura di truffe, la confusione che tanti fanno, dai superesperti di facebook a tanti giornalisti da inserto salute, è fra "molecole" che costituiscono principi attivi di un qualche beneficio per la salute, e che sono magari contenute in particolari cibi, e i cibi stessi che le contengono.

Se esistono certamente molecole che in base a rigorosi studi scientifici hanno proprietà terapeutiche o coadiuvanti di una terapia, questo non vuol dire affatto che mangiando i cibi che le contengono allora si guarirà dalla tal malattia. Perché è tutta una questione di dosi e di modalità, cioè di QUANTA sostanza è necessario assimilare per beneficiare delle sue proprietà terapeutiche, e di COME deve essere assunta.

Ad esempio l'avocado contiene omega 3. Questo fa dire a molti che l'avocado è il toccasana per la prevenzione delle malattie cardiovascolari, e addirittura (perché poi quando si comincia a spararle grosse fermarsi diventa difficile) per l'Alzheimer e già che ci siamo anche per la sclerosi multipla. Come se, mangiando un avocado al giorno (che poi sai che palle tutti i santi giorni!) puoi stare tranquillo che non ti verrà mai un infarto. Come se, con un avocado al giorno, stessi prendendo una contromisura che ti fa dormire sonni tranquilli per il futuro.

Adesso... facciamocene una ragione: non sarà ingozzandosi di avocado che eviteremo problemi di ischemia, soprattutto se abbiamo familiarità o altri fattori di rischio. Un conto è il fatto che gli omega 3 siano importanti nella prevenzione delle malattie cardiovascolari, e un conto è sostenere che l'avocado, che pure contiene omega 3, sia importante nella prevenzione delle malattie cardiovascolari. Dico l'avocado per citare un esempio a caso fra le tanti soluzioni miracolose che certa stampa ci propina.

E men che meno l'avocado servirà a guarire dalle patologie cardiovascolari! Perché se si sta bene in salute una dieta equilibrata (contenente quindi anche l'avocado, se ci piace) aiuterà a mantenerci in salute (e questo lo dicono tutti i medici, non c'è bisogno di scoprirlo su facebook). Ma se si ha la sfiga di ammalarsi (e succede anche se si mantiene un regime alimentare ottimale, purtroppo) non c'è avocado che tenga, bisognerà prendere i farmaci adatti. Non saranno tonnellate di avocado che riapriranno una coronaria occlusa, come invece certi idioti del web credono e vogliono farci credere.

E lo stesso discorso vale per i cibi pericolosi. Ad esempio c'è gente che legge che le sostanze che si sviluppano dalla bruciatura della carne alla brace sono cancerogene, e quindi ne conclude che guai a mangiarsi una bistecca alla griglia! Veleno! Ma si dimentica di chiedersi quanta di quella sostanza dovrebbe assumere, e con che frequenza, per osservare sintomi concreti. Non sara certo una grigliata ogni tanto a spalancarci la strada per la tomba!

Un po' di tempo fa hanno fatto un film-documentario in cui un tipo, per un mese di seguito, si è nutrito sempre e soltano da McDonald's. All'inizio la sua salute era perfetta, ma dopo un mese di dieta a base di BigMac e cheeseburger era ingrassato e si sentiva una schifezza. Conclusione: mangiare da MacDonald's fa molto male!  Certo, il cibo di MacDonald's non è l'ideale per un'alimentazione sana. Ma cosa vuol dire che "fa male?". Fa male in assoluto, come l'amanita phalloides, o fa male se esagero? Se mi ci nutro per un mese di seguito?

Supponiamo allora di sottoporre un volontario ad un'altra versione dell'esperimento: un mese soltanto a base di pasta e fagioli. Pasta e fagioli, tutti i giorni, colazione, pranzo e cena. Un cibo ritenuto normalmente più che salutare, no? Fibre, proteine, pochi grassi, carboidrati il giusto..., perfetto insomma! Mi ci gioco la testa che dopo un mese la cavia dell'esperimento sarebbe ridotta una chiavica, sicuramente ingrassata, oltre ad avere sviluppato problemi pratici di convivenza con il resto del genere umano. Conclusione: la pasta e fagioli fa male? La pasta e fagioli da sola è capace di ridurre un essere umano sano a una schifezza in un solo mese? No, ovviamente. Come sempre, dipende da quanta ne mangi. Anzi, nelle dosi giuste e un ottimo alimento. Come al solito è il vecchio buon senso che viene messo in soffitta. Quello che, da solo, spesso è tutto ciò che serve per vivere bene. Ma evidentemente questa ricetta così semplice e alla portata di tutti, per tanti sembra essere un concetto decisamente difficile.